Depressed girl sitting on bench in park. Side view of frustrated young woman with closed eyes covering ears with hands and holding head. Depressive syndrome concept

Ansia, la risposta alle paure di un mondo che corre: come riconoscerla

Ansia, tantissimi ne parlano ma non tutti conoscono e riconoscono il problema. L’impatto del Covid è stato pesante: ansia da contatto, da assembramenti, da dad, da smart working e connessione ballerina, o da quella lunga attesa dell’esito di un tampone. L’ansia, però, non sempre è quello che pensiamo.

L’ansia, cos’è? Lo abbiamo chiesto alla psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia. “L’ansia è un processo psichico di risposta dell’organismo a stimoli esterni di paura“.

Un processo che porta il soggetto ‘vittima’ del disturbo ad adottare due opposte modalità di comportamento: l’attacco o la fuga. “Cioè tentativi di evitare quel pericolo esterno o di reagire con l’aggressione”.

“L’ansietà è un sottile rivolo di paura che si insinua nella mente. Se incoraggiata, scava un canale nel quale tutti gli altri pensieri vengono attirati”R. A. Block.

In molti casi l’ansia è una reazione normale a situazioni o imprevisti e, in questi contesti specifici, è da considerarsi positiva, perché imput all’azione. Le criticità maggiori si presentano, al contrario, quando si è in presenza di un’ansia patologica.

Oggi dire “ho l’ansia” è diventata quasi un’abitudine, spesso non giustificata da un’effettiva presenza del problema, soprattutto in “quei giovani che affermano di avere l’ansia solo perché ne hanno sentito parlare dagli adulti”. Occorre, tuttavia, “fare una distinzione in partenza: tra l’ansia normale e quella patologica. Differenti pur se il confine tra le due è difficile da stabilire”, ci spiega ancora Chiara Gioia.

Il paziente che manifesta ansia patologica tende a considerarsi vittima di un disturbo ansioso a prescindere. “Arriva in studio per sottoporsi alla terapia già nella veste di soggetto colpito da ansia patologica. In realtà quella sensazione è positiva nella misura in cui ci fa capire che c’è qualcosa da modificare nelle sue abitudini di vita“.

L’ansia patologica, invece, è disfunzionale, equindi negativa, quando è sproporzionata rispetto agli stimoli che l’hanno attivata. In questo caso il soggetto in questione può perdere il controllo delle sue emozioni, avvertendo una percezione di impotenza, che non gli permette di affrontare situazioni nuove ed impreviste, se non accompagnate da un disagio”.

Ansia, quali disturbi può provocare

Ci sono diversi criteri che sono utilizzati in psichiatria per essere inquadrati all’interno una precisa patologia, in fatto d’ansia.

Criteri che permettono di “presentare evolutivamente i disturbi d’ansia in base all’età di insorgenza”. Tra questi:
-disturbo d’ansia di separazione
-mutismo selettivo
– fobia specifica
– disturbo d’ansia sociale
– disturbo di panico
-disturbo d’ansia indotto da sostanze/farmaci

“Ovviamente, però, il disagio si sviluppa in ogni soggetto in maniera diversa. Alcuni possono presentare anche più disturbi in contemporanea, o problemi diversi da quelli citati. Non ci si può ascrivere tutti nella stessa patologia, poiché ognuno somatizza l’ansia a suo modo”.

“Lo psicoterapeuta – specifica Chiara Gioia – deve vedere ciascun paziente e ciascun caso come inedito, unico. Solo così potrà percorrere il tragitto per giungere a svelare il teatro psichico che ognuno ha. Nella letteratura scientifica, l’ansia la si ritrova come disturbo all’interno del Dsm (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e viene, inoltre, studiata con un approccio di natura psicodinamica. Ci si basa, cioè, sull’interpretazione dell’ansia come il risultato di un conflitto che nasce nel nostro mondo intrapsichico. Lo scopo della terapia, per tale ragione, è quello di comprenderne le origini individuali“.

Quel senso di soffocamento

ansia

L’ansia si manifesta come uno stato di agitazione, “una vera e propria sensazione di soffocamento. Uno stato psichico mentale di fronte a situazioni di possibile pericolo o incertezza, più o meno accentuato a seconda del carattere di ciascuno”.

Il nostro modo di vivere incide in maniera rilevante sul problema. “Oggi, la società vive in un tempo in cui non si fa altro che rincorrere. L’individuo così fa fatica a stare al passo, a stare nel qui ed ora. Si tende ad immaginare tutto ciò che dobbiamo fare e immaginandolo nasce l’ansia dovuta al sentirsi impreparati. Ci sembra di non avere gli strumenti o le capacità per affrontare tutto”.

Informazioni che sono testimoniate da numerosi studi scientifici sul tema. Fonti di letteratura scientifica definiscono l’ansia come “il prodotto di un tempo che si rincorre, poiché non è il nostro ma ci viene imposto dalla collettività“.

La conseguenza? “Ci si sente oppressi e i soggetti possono avvertire un senso di faticosa costrizione. Quanti di noi dicono, in alcuni casi, di sentire come un nodo alla gola? Da qui un generale senso di soffocamento e, a volte, addirittura di panico“.

La società odierna ci fa delle continue richieste alle quali rispondere e l’ansia, in realtà, inizialmente si configura come “un aiuto per attivarci a livello fisico e psicologico. Le difficoltà incontrate nel rincorrere questo tempo imposto dalla collettività e questo mondo che corre sempre più di fretta, tuttavia, generano l’ansia per ciò che potrebbe o non potrebbe accadere”.

La gola che si chiude è, del resto, un dato che deriva direttamente dall’etimologia del termine

“La parola greca μέριμνα (mèrimna), usata nella Bibbia e tradotta come “ansia”, ha a che fare con il vocabolo μέρος (mèros), “parte”, e con il verbo μερίζω (merìzo), “separare in due parti” – ci spiega la psicologa e psicoterapeuta – Indica quindi uno stato d’animo che presuppone la presenza di un combattimento interiore, che divide. Si diventa ansiosi quando si pensa troppo ai propri problemi e ci si preoccupa eccessivamente per cose su cui non si ha un controllo completo. Etimologicamente, inoltre, il termine ansia trova un suo diretto corrispondente nel latino ANXIA, il quale a sua volta deriva, senza dubbio, dal verbo latino ango che significa stringere, soffocare o in altri termini angosciare”.

L’ansia, da ‘positiva’ a negativa: il panico

Un lieve stato d’ansia è da considerarsi addirittura funzionale alla nostra vita “perché ci pone nella condizione di fare qualcosa per raggiungere quella meta che, inizialmente, aveva causato l’attivarsi dello stesso processo ansioso”.

Un’ansia che ha, inevitabilmente, delle attivazioni e manifestazioni somatiche, quali:

“il temporaneo aumento della frequenza del battito cardiaco, tensione muscolare, alterazioni della respirazione, accentuata sudorazione e così via”.

Le manifestazioni, inoltre, caratterizzano anche la “dimensione psicologica dei soggetti in questione. Se, tuttavia, un’ansia leggera ci dà una spinta in più per aumentare le nostre energie – basti pensare a quella paura adrenalinica che precede un esame scolastico – ci sono dei limiti anche per l’ansia. Se ci ritroviamo in uno stato d’allarme in circostanze innocue allora il livello d’ansia è andato oltre. Sono i casi, ad esempio, dell’angoscia che ci attanaglia quando stiamo svolgendo il nostro consueto lavoro o se stiamo semplicemente esprimendo la nostra opinione di fronte ad altre persone, o ancora se temiamo eccessivamente la presenza di microbi, insetti o altri animali”.

È in questo caso che, se non affrontata con la giusta terapia, il soggetto rischia di “convivere con l’ansia in modo disfunzionale. Si prepara, in questo modo, il canale per l’insorgere del panico”.

Perché il panico che non arriva mai da solo, ma è sempre la risultante di un’ansia non trattata. 

‘La sindrome da maniaci del controllo’

La manifestazioni ansiose colpiscono soprattutto le persone più razionali. “Quando una persona si ascrive dentro un modus operandi legato esclusivamente alle attese della società -attese legate al dovere – tralascia i piaceri personali, i momenti di leggerezza. Ma se non ossigeniamo anche la parte legata al nostro istinto (e qui torna alla mente il Mito di Pan, Dio greco delle pulsioni vitali), la nostra psiche non può in automatico cancellare queste esigenze preesistenti. Allora tenderanno comunque ad emergere sensazioni contrastanti tra senso del dovere e impegni da adempiere, da un lato, e bisogni rinnegati dall’altro lato. Con una parte di noi che si ribellerà sempre per riaffiorare”.

“Ascoltiamo questa parte di noi, quella più istintiva, se vogliamo stare bene. Partiamo da questo malessere per arrivare a un rinato benessere. Del resto, continuare a vivere facendo troppe cose, anche per provare a sentire in misura minore il disagio che ci opprime, ci fa restare sempre sull’attenti: avvertendo l’esigenza di essere costantemente ipercontrollati. Ciò non fa altro che far crescere la nostra ansia”.

Ansia, vietato soffocarla

“In tanti arrivano in terapia con una richiesta specifica, cioè quella di bloccare l’ansia. Questa, però, non va soffocata ma accolta, poiché paradossalmente più la abbracciamo più possiamo comprendere cosa cambiare nel nostro modo di vivere. È un messaggio della psiche che ci indica su cosa soffermarci per raggiungere il completo benessere“, sottolinea Chiara Gioia.

Il mancato punto di incontro tra il tempo esterno e il proprio tempo personale porta al disturbo dell’ansia. “Un disagio che ci impone di essere proietttati sempre in avanti. L’ansia tipica del nostro tempo altro non è, in definitiva, che una ribellione. La formula più comune e più diffusa del corpo per esprimere una difficoltà di adattamento a ritmi, riti e conformismi imposti dalla collettività”.

“Il sintomo dell’ansia ha un duplice aspetto, terrificante e di opportunità, di chiave, di apertura verso una nuova strada che conduce l’individuo a conoscere e prendere consapevolezza di una parte che rifiutava avere, una sorta di ombra… I sintomi sono la possibilità di cambiamento, di dinamicità ed un percorso psicoterapeutico che accompagni, un po’ come Virgilio con Dante, l’individuo a scoprire ciò che è insito ma ignoto e spaventoso. I disagi si manifestano per essere accolti, ascoltati e riconosciuti. A mio avviso la conoscenza è un valore che ogni individuo dovrebbe coltivare, nutrire e la Psicoterapia è lo strumento più aulico che si ha a disposizione in ogni fase della vita, di cui ci si può avvalere”.

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Hikikomori, soli per scelta ma connessi: quando il mondo finisce in una stanza

Hikikomori cioè stare in disparte. Un passo indietro rispetto alla società, agli altri, al mondo che esiste fuori dalla finestra della nostra cameretta. Soli, isolati, con l’unica compagnia virtuale di videogiochi e chat online.

Un fenomeno ancora poco conosciuto, quello dell’Hikikomori, ma non per questo poco diffuso in Italia. E il Covid non ha fatto altro che acuire un disagio che colpisce soprattutto i giovani. Ma va fatta una distinzione precisa tra isolamento obbligatorio – dovuto in questo caso specifico alle misure Covid – e isolamento volontario, qual è quello che caratterizza l’hikikomori.

La sindrome dell’hikikomori porta l’individuo soggetto al disagio a indietreggiare, a mettere in atto un vero e proprio ritiro sociale. Lo dice l’etimologia del termine giapponese.

La parola “hikikomori” fu utilizzata per la prima volta dallo psicologo e scrittore Saito Tamaki: deriva da ‘hiku’ che sta per ‘indietreggiare’ e ‘komoru’ cioè ritirarsi socialmente. Dal 2013 il termine ha trovato una propria identità anche sul dizionario della Lingua Italiana Zingarelli. “Il fenomeno nasce proprio in Giappone e ha riguardato, fin dal principio, quei ragazzi o quegli adulti che decidono di praticare una reclusione volontaria, chiudendosi in casa, spesso nella propria stanza, per un periodo variabile: che può andare da qualche mese a svariati anni”. A parlare al Capoluogo è la psicologa e psicoterapeuta Chiara Gioia.

Si tende a distinguere, nella nostra cultura occidentale, tra: Hikikomori Primario, ovvero quella condizione di reclusione che non ha legami con altri disagi preesistenti, e Hikikomori Secondario, quell’esclusione sociale che risulta essere l’effetto di fobie, disturbi dell’umore o altre sofferenze a livello psichico

Hikikomori, l’esigenza di stare soli a causa di un malessere

L’hikikomori, ormai, è un disturbo molto diffuso anche in Italia. Sono circa 100mila i casi accertati. Il disturbo in genere appare prevalentemente in una fascia d’età che va dai 10 ai 40 anni. La maggiore incidenza si registra fra i 15 e i 19 anni

Tra i sintomi che provoca: lo sviluppo di pensieri ossessivi o compulsivi, fissazioni, regressioni infantili. 

Le principali cause dell’hikikomori negli studi ad esso dedicati sono state elencate in:

-un malessere a livello familiare e in modo ancora più ampio a livello sociale,

– una particolare introversione.

-episodi di bullismo scolastico, con i giovani cheesprimono la loro sofferenza attraverso il ritiro sociale.

“Tuttavia, al di là del mondo esterno, il disturbo può derivare da come ogni singolo individuo tende a decodificare determinate dinamiche che si ritrova ad affrontare, da come reagisce e, quindi, quali risorse intrapsichiche attiva”, specifica Chiara Gioia.

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Internet, cresce la dipendenza tra i giovani: solitudine ed effetto Covid

Internet, una vetrina colorata, dinamica e multimediale, che ha sempre la risposta a tutte le nostre domande. Social network, chat, giochi: nel 2020 è cresciuta di molto la percentuale di utilizzo del web tra i giovani, insieme, purtroppo, al tasso di dipendenza da internet. E non sempre è stata ‘colpa’ della didattica a distanza.

Si parte da un semplice desiderio di svago, come si arriva a sviluppare una dipendenza da internet? Lo abbiamo chiesto alla psicologa e psicoterapeuta Chiara Gioia.

“Internet, prima di diventare una dipendenza, si configura per tutti come un’attività di svago: il desiderio di passare del tempo in rete, sfruttando le enormi potenzialità che offre il web. Piattaforme social, forum di gruppo, spazi musicali e così via. I problemi sorgono dal momento in cui, per trascorrere il proprio tempo su internet, si iniziano a trascurare i diversi aspetti della propria vita quotidiana“.

Primo campanello d’allarme il passaggio dal senso di svago al profondo senso di ‘necessità’ dell’uso di internet.

“Non possiamo ridurre il discorso della ‘dipendenza da internet’ andando a quantificare le ore che ognuno di noi passa navigando in rete: su Facebook, Instagram, Tik Tok, o semplicemente entrando e uscendo dalle illimitate sezioni che possono offrire i motori di ricerca. È importante tenere a mente un concetto: non si è dipendenti solo se si passano molte ore al giorno su internet, possono bastarne anche due nel corso di un’intera giornata. In questo modo si può essere dipendenti ‘inconsapevoli’”, specifica la dottoressa Chiara Gioia, ascoltata dalla nostra redazione.

Senza accorgercene, Internet diventa un rito quotidiano: un’abitudine a cui non si può rinunciare. Giovani a rischio

Guardando ai numeri del nostro territorio, un report pubblicato nel 2020 dall’App Annie, registra un rilevante incremento dell’utilizzo degli smartphone, anche nella realtà aquilana. I dati mostrano un pesante incremento dell’uso dei telefonini tra le giovani fasce d’età proprio in Italia e, va da sé, che in parte l’innalzamento delle percentuali di utilizzo di smartphone, tablet e pc – tutti i dispositivi che consentono l’accesso al web – sia dovuto anche alla pandemia e al lockdown.

L’Italia risulta ai primi posti per l’utilizzo dei dispositivi tecnologici legati al web. Relativamente agli smartphone Android si parla di un incremento del 20% sul tempo di utilizzo settimanale, speso in applicazioni e giochi. I cambiamenti più importanti sono stati rilevati, oltre che in Italia: in Francia, Germania e Usa. Nel nostro paese, per l’esattezza, si è registrato un +30% generale di utilizzo rispetto al 2019 (sempre secondo i dati dell’App Annie). Un cambiamento repentino in buona parte giustificato dalla nuova quotidianità imposta dal Covid 19.

“Si passa, in moltissimi casi, dalla curiosità di vedere cosa ci riservano i social a stare su internet perché non se ne riesce a fare a meno. Navigare sul web, soprattutto sulle varie piattaforme social, diventa un autentico rito, che spesso corrisponde a precisi orari della giornata, a prescindere da effettive esigenze personali. Quali dover controllare la propria posta elettronica, i propri conti online e così via”.

“L’impossibilità di collegarsi, in alcune situazioni,  può generare un senso di vuoto e angoscia”.

È nella dimensione dei rapporti interpersonali che internet agisce in maniera più incisiva e invadente.

“La curiosità genera coinvolgimento, fino a giungere alla cosiddetta sostituzione: quando, per l’appunto, le persone si immergono totalmente nella realtà di internet a discapito della propria vita quotidiana. Ciò avviene, a volte, in quelle persone che grazie al web si sentono gratificate riguardo a contesti e situazioni che non le soddisfano nella vita reale”.

Un esempio? Le relazioni interpersonali. Chi vive il disagio di avere pochi amici, può sentirsi contento nell’avere 2mila amici virtuali su Facebook.  

“Così internet è quella dimensione in cui un soggetto, che attraversa magari un momento di disagio, realizza quei bisogni irrealizzati nella vita vera. Da qui un continuo riutilizzo e la vera e propria sostituzione.

Conoscere e studiare l’impatto che ha l’utilizzo della rete su ognuno di noi, in generale sulla mente umana, è fondamentale: poiché l’uso incontrollato di internet incide su salute e benessere. La rete, del resto, diventa il mezzo per entrare a contatto con il mondo. Per chi vive un disagio interiore rappresenta a tutti gli effetti “il modo per osservare cosa nel mondo accade”.

Internet come antidoto al proprio malessere, alla propria solitudine e, spesso, alle proprie difficoltà relazionali. Di conseguenza, nasce un senso di benessere ogni volta in cui si è ‘online’.

“Le molteplici definizioni impiegate in letteratura, quali Internet Addiction, Internet Dependency, Pathological Internet Use, Compulsive Internet Use, hanno lo scopo di porre l’attenzione su quelle persone iper concentrate nell’utilizzo del web, tanto da trascurare molti altri aspetti della vita quotidiana, fino a creare delle disfunzioni relazionali, professionali e sociali“.

Tra i fattori che favoriscono questo elevato incremento nell’utilizzo dei dispositivi del web tra i giovani, con relative problematiche legate alla dipendenza da internet ci sono: l’abbassamento dell’età del primo approccio, il cambiamento del mondo dei consumi giovanili, il cambiamento della famiglia nella sua funzione educativa, un contesto sociale e culturale sempre più basato su una logica individuale e di consumo. 

“Emerge – continua la psicologa e psicoterapeuta Chiara Gioia – un’affascinante relazione che si è instaurata tra la mente umana e le tecnologie interattive. Infatti, tutti coloro che usano la rete telematica attraversano alcune fasi. La prima è quella dell’incanto, che porta l’individuo ad interfacciassi con le potenzialità e con le risorse della rete, la seconda fase è di disillusione: si è più coscienti del grande potere del mezzo internet, potere che si ripercuote in primis sulle nostre abitudini, infine una terza fase, di riequilibrio. Alcuni riescono autonomamente a impegnarsi per equilibrare il proprio rapporto con la tecnologia. Chi non riesce in quest’azione, invece, rischia di essere totalmente assorbito dalla tecnologia, senza neanche rendersene conto“.

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