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Risse tra ragazzi: il protagonismo negativo che dobbiamo curare

Risse, violenza, disagi e mancanza di un senso del sé. E’ così che i ragazzi da apparenti carnefici diventano vittime di un protagonismo negativo, spesso anche violento, che dobbiamo curare.

Negli ultimi giorni vi abbiamo raccontato di episodi di cronaca con ragazzi, spesso minorenni, protagonisti di risse violente. In centro storico il sabato sera, così come nei giorni normali all’uscita di scuola. Abbiamo parlato del fenomeno con Chiara Gioia, psicologa e psicoterapeuta.
Come si è arrivati fin qui?
“È innanzitutto di fondamentale importanza, per arginare il fenomeno, comprendere i meccanismi che vi sono alla base, per rispondere nel modo più adeguato. Andando oltre pensieri i quali ritengono che gli autori e spettatori di risse sono probabilmente frustrati dall’assenza di valori e di legami affettivi significativi, ritengo doveroso rimandare che tali fatti mettono in scena giovani per cui vivono sentimenti di vuoto che subiscono passivamente. Spesso questi gesti rappresentano dei modi attraverso cui emergere, oppure sono dei rituali interni al gruppo che vengono vissuti come fossero prove di coraggio, in cui l’atto deve essere riconosciuto, visibile, plateale, al proprio gruppo e non solo, anche ai semplici passanti, come dimostrano i fatti che in pieno centro o all’uscita di scuola e non in un luogo ‘nascosto’: la visibilità è un elemento essenziale”.

Gli adulti (scuola e/o famiglia) che ruolo hanno?
“Tali comportamenti, che non possono essere definiti solo frutto della ribellione adolescenziale e trasgressivi, bensì antisociali diventano di preoccupazione per gli adulti siano essi genitori, insegnanti, educatori. La risposta del mondo adulto a questi comportamenti è spesso allarmata, condizionata da pregiudizi e tentata da reazioni repressive che non solo sono inefficaci, ma spesso controproducenti, pertanto sulla base delle conoscenze derivanti dagli ultimi decenni di ricerca sulla trasgressività adolescenziale è invece possibile parlare di un intervento efficace. Gli adolescenti sono naturalmente trasgressivi ed il binomio tra adolescenza e trasgressività è stata da sempre riconosciuta. Può pertanto essere particolarmente difficile distinguere le situazioni in cui la trasgressività e l’aggressività sono al servizio e funzionali alla crescita e all’acquisizione di un’identità sociale e quelle in cui all’opposto sono l’espressione di una tendenza antisociale o l’inizio di espressioni di disagi molto più strutturati”.

Cosa c’è alla base di questi “reati”?
“Scarse motivazioni, la percezione di una mancanza di alternative decisionali, l’agire d’impulso, l’effetto di contagio deresponsabilizzante del gruppo, la scarsa empatia, anestetizzare le proprie emozioni, minimizzare il significato trasgressivo o aggressivo del comportamento, sono tutti tratti che spesso si ritrovano nei ragazzi che commettono reati e nella valutazione iniziale può essere difficile dire quanto siano l’espressione di tratti di personalità stabili, a specifiche condizioni del momento o siano piuttosto da attribuire ad una dinamica evolutiva. Anche il contesto sociale è determinante nell’emergere della trasgressività, in quanto contribuisce, attraverso la definizione di valori sociali condivisi, a stabilire ciò che è permesso o proibito, ponendo di fatto i limiti il cui superamento costituisce appunto una trasgressione, il cui valore può variare molto in base alla cultura o alla subcultura di riferimento.

Cosa fare per arginare il fenomeno?
“Intervenire in modo efficace con gli adolescenti trasgressivi ha una valenza anche dalla prospettiva delle politiche sociale e del welfare. Una prospettiva psicologica e psicoanalitica è fondamentale per riconoscere e comprendere l’appello che il comportamento antisociale dei ragazzi rivolge agli adulti. Necessario partire dall’individuare quel senso comunicativo del comportamento trasgressivo è, infatti, la premessa indispensabile per una risposta efficace da parte del mondo adulto. Una risposta che deve andare oltre la dicotomia tra la “cura” di un disturbo e la “punizione” di un gesto deviante e porsi al servizio di un percorso di crescita che altrimenti rischia di vedere nel gesto trasgressivo un muro invalicabile.

La rissa è un’azione simbolica, che ha lo scopo di superare un blocco, la manifestazione di un aspetto del Sé che non riesce ad esprimersi in altro modo.

“L’accento è da porre non tanto su un problema di controllo pulsionale e nemmeno su un problema relazionale, ma sulla mancanza di un senso di Sé in quanto adolescente, che si costituisca come contenitore di senso per il comportamento: l’antisocialità in questa prospettiva è un blocco nell’acquisizione di un’identità sociale, che da un punto di vista psicologico può essere intesa come acquisizione di un senso di Sé dotato di valore.
Come sia possibile aiutare l’adolescente a superare questo blocco evolutivo, in un modo che può apparire paradossale, è puntare l’attenzione sul processo di soggettivazione che supera il blocco evolutivo che potrebbe essere attivato non solo o non tanto attraverso lo sviluppo di una funzione riflessiva volta ad aumentare l’autoconsapevolezza, ma attraverso un intervento che assegna un ruolo centrale al rapporto con l’ambiente. Questa prospettiva implica che la costruzione del Sé in adolescenza è in primo luogo una funzione della relazione dell’adolescente con l’ambiente di sviluppo, come se il Sé si costruisse nella relazione di rispecchiamento con il contesto e non solo attraverso una riflessione o rispecchiamento nel mondo interno dell’adolescente”.

Quali gli interventi “rieducativi” in atto? Tra questi il progetto Web Black & White del Comune.
“Il cambiamento avviene attraverso nuovi investimenti di senso nelle relazioni tra il soggetto e i suoi oggetti, cioè gli ambienti, Le indicazioni di intervento possono essere molteplici proprio perché all’adolescente la realtà esterna offre opportunità di nuovi investimenti: trattamenti psicoterapeutici, pedagogici, psicopedagogici, orientamento scolastico, attività extrascolastiche, attività sportive, ridefinizione degli spazi familiari, progetti psicoeducativi realizzati su attente analisi dei bisogni, nel caso di questo ultimo basti ricordare il progetto “Web Black & White”, finanziato dall’Assessorato alle politiche giovanili del Comune di L’Aquila, volto al corretto uso delle tecnologie, trattando la tematica del grooming, che ha visto coinvolto ben 120 alunni delle scuole aquilane. In una prospettiva psicoanalitica tale funzione ambientale (esempio il progetto) non si riduce ad un intervento educativo comportamentale perché l’ambiente non svolge solo con funzioni, ma fornisce rappresentazioni, è un luogo che l’adolescente può riempire di significati”.

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Niente Bonus psicologico, l’ultimo colpo alla psicopandemia: così non si tutela la salute

Niente bonus psicologico in tempi di Psicopandemia.

Tantissime le conseguenze del Covid19 e degli stravolgimenti che il virus ha portato tra noi. Una realtà testimoniata dai dati. Autolesionismo, depressione giovanile, stress psicologico, disagi. Qual è stata la risposta dello Stato di fronte all’emergenza? Non il bonus psicologico. E forse mai come in questo momento la misura sarebbe stata preziosa per il benessere dei cittadini, perché non bisogna mai dimenticare che benessere non vuol dire solo non soffrire di malattie.

“Come ogni situazione estrema, una malattia porta alla luce quanto di meglio e di peggio c’è in ciascun individuo”, Susan Sontag

L’OMS definisce il benessere e la salute di un individuo come uno “stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”. Questa definizione “identifica la salute con uno stato di benessere fisico e psichico e la considera come fattore non solo individuale ma anche collettivo: ciò vuol dire che nel processo della salute sono partecipi non solo la condizione fisica generale, ma anche componenti psicologiche e sociali. In questo modo l’individuo viene considerato nelle sue tre dimensioni: biologica, mentale e sociale. 
Questo nuovo concetto di salute è in contrapposizione alla definizione tradizionale, che considerava la salute semplicemente come ‘assenza di sintomi’.” A parlare alla nostra redazione è la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

La Salute è un diritto

Che la salute sia un diritto lo stabilisce la Costituzione italiana che, nell’articolo 32, stabilisce i principi fondamentali per la tutela della stessa: intesa come diritto dell’individuo e di interesse della società.

“
La tutela della salute è così contemplata sotto un duplice profilo: da un lato viene affermato il diritto dell’individuo al recupero della piena efficienza fisica e funzionale (tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo); dall’altro viene riconosciuto e sancito il preciso interesse della collettività ad avere nei suoi vari settori individui pienamente validi (tutela della salute come interesse della società). Sappiamo anche come i concetti di salute, malattia e cura sono fortemente influenzati da variabili culturali e sociali, che implicano notevoli differenze sul piano delle politiche socio-sanitarie”.

Quale benessere psicologico in tempi di pandemia?

“A distanza di quasi due anni dall’arrivo del Covid19 ci si rende sempre più conto del precario equilibrio psichico di moltie di come il danno pandemico sia assolutamente a 360°. Misure di prevenzione della pandemia estremamente rigorose, seppur necessarie – quali la chiusura obbligatoria delle scuole, l’isolamento forzato, il blocco delle attività sportive e la sospensione di tante produzioni e attività commerciali non essenziali – hanno gravemente pregiudicato la vita quotidiana delle persone, la loro attività lavorativa e il loro futuro economico“.

Questa situazione ha “stressato” e indebolito psicologicamente moltissimi soggetti, aggravando problemi preesistenti. Le fragilità intrapsichiche sono un elemento comune di tutta la popolazione, in ogni fascia di età: dal bambino all’adolescente fino all’adulto, ma – in questo particolare momento – hanno riguardato e riguardano anche le coppie, le famiglie, gli anziani, gli operatori sanitari, i pazienti che hanno subito un lutto, coloro che hanno vissuto con manifestazioni più serie il Covid. E ancora coloro che già vivevano in condizione di salute psichica precaria prima della pandemia. All’improvviso tutto ha subito un mutamento, uno stravolgimento che necessita di esser supportato e riconosciuto come diritto del singolo e della collettività”.

Bonus Psicologico, un aiuto per essere ascoltati e per abbattere le difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti

“Se da un lato si avverte e si vive in primis la metamorfosi in negativo del Covid19 – continua Chiara Gioia – l’altra faccia della medaglia ci porta a fare una riflessione. Questa pandemia vuole sottolineare come sia necessario mutare forma mentis e modus operandi: ciò evidenzia l’importanza di saper considerare e saper ancor prima ascoltare il singolo e la collettività, per poter identificare, accogliere e lavorare i bisogni che emergono e necessitano di essere riconosciuti. La sofferenza psichica inascoltata, soffocata, non riconosciuta è indice di un’incapacità comunicativa. Ricordo, infatti che comunicare è saper ascoltare“. 

La comunicazione è il mezzo essenziale attraverso il quale si realizza il rapporto sociale. L’ascolto rappresenta uno dei momenti fondamentali nell’ambito del processo comunicativo, tanto da costituire, secondo alcuni, un pre-requisito della comunicazione stessa. Saper ascoltare vuol dire saper dare e non solo ricevere. L’ascolto è ‘profondo’ quando si fonda su disponibilità, accoglienza, non giudizio e non critica, su un’attenzione concentrata, sulla capacità di dimorare con calma nel silenzio, sull’ascolto di sé. L’ascolto profondo nasce da un interesse per gli altri e da un’attitudine a prendersene cura. E salute, benessere, ascolto e comunicazione sono tutti processi che fanno parte di un grande sistema, quello conosciuto con il nome di Stato sociale, o Stato del benessere”.

“Il cosiddetto Welfare state, secondo una definizione largamente accettata, ‘Un insieme di politiche pubbliche con cui lo Stato fornisce ai propri cittadini, o a gruppi di essi, protezione contro rischi e bisogni prestabiliti, in forma di assistenza, assicurazione o sicurezza’. Si interviene nello specifico a livello di assistenza sanitaria; istruzione pubblica; indennità di disoccupazione, sussidi familiari, in caso di accertato stato di povertà o bisogno e ancora previdenza sociale. È un sistema di norme con il quale lo Stato cerca di eliminare le diseguaglianze sociali ed economiche fra i cittadini, aiutando in particolar modo i ceti meno abbienti”. 

Il problema della tutela dei bisognosi è stato sempre presente, in forme diverse, in ogni comunità organizzata. Nel pieno della pandemia lo è ancora oggi.

Nel 1986 si tenne ad Ottawa in Canada, si tenne la Conferenza dell’OMS. Qui, fu adottata una carta sulla promozione della salute, “La Carta di Ottawa”.

Troviamo in questa Carta un’ulteriore definizione di promozione della salute: “La promozione della salute è il processo che conferisce alle popolazioni i mezzi per assicurare un maggior controllo sul loro livello di salute e migliorarlo. Questo modo di procedere deriva da un concetto che definisce la salute come la misura in cui un gruppo o un individuo possono, da un lato, realizzare le proprie ambizioni e soddisfare i propri bisogni e dall’altro, evolversi con l’ambiente o adattarsi a questo. La salute è dunque percepita come risorsa della vita quotidiana e non come il fine della vita: è un concetto positivo che mette in valore le risorse sociali e individuali, come le capacità fisiche. Così, la promozione della salute non è legata soltanto al settore sanitario: supera gli stili di vita per mirare al benessere.

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Adolescenti, esperienze mancate e poca comunicazione: ascoltiamoli prima del black out

Non è semplice essere adolescenti, soprattutto nel bel mezzo di una psicopandemia.

Se i dati nazionali raccontato di episodi di autolesionismo o di aggressività in crescita, di genitori in difficoltà nella gestione dei propri figli, la fascia degli adolescenti sembra essere quella che più ha risentito dello stravolgimento portato dalla pandemia. Pandemia che per tutti, ma soprattutto per loro, sembra sempre più assumere i contorni di una psico-pandemia. Con tutte le conseguenze del caso.

Hanno perso tanto gli adolescenti di oggi.

Anni di rapporti sociali, anni di formazione in presenza, anni pieni: di relazioni, di amicizie, di carezze dei nonni, di corse in bici con gli amici, di pigiama party in compagnia, di pomeriggi di gruppo alla play, di feste e tradizioni ormai care. Hanno perso quasi tutto, all’improvviso, e spesso si sono ritrovati a chiudersi in sé stessi.

“Per prima cosa bisogna considerare l’adolescenza come un periodo di passaggio per ogni individuo. L’adolescenza, infatti, è un ponte di collegamento tra il mondo del bambino e quello dell’adulto e comporta una necessità per ognuno di sperimentare e soddisfare tante curiosità: pensiamo a quelle relazionali, comunicative e alla necessità viva di fare nuove esperienze relazionali. Un turbinio di emozioni, anche a livello ormonale, che ovviamente richiede un’attenzione per definire la propria identità e il proprio modo di essere“, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

Poi è arrivata la psicopandemia

“È stato inevitabile che tutto ciò si arrestasse. Bloccando quelle possibilità di esplorare curiosità, esigenze…così come le volontà di scoprire ciò che siamo. L’adolescente inoltre, al di là della pandemia, ha anche necessità di interfacciassi con il mondo della psicologia. Nella mia esperienza concreta – sia come analista privata che come psicologa nelle scuole – ho osservato emergere un loro interesse nell’avvicinarsi al mondo della psicologia. Strumento non inteso come il bisogno di qualcuno che è malato, ma come terapia per capire le proprie emozioni, per ridurre l’eventuale divario comunicativo con i propri genitori o con i propri compagni. Se queste necessità, però, non vengono riconosciute nel modo giusto da parte degli adulti, l’adolescente rischia di portarsi dietro disagi anche profondi, che possono, in casi estremi, sfociare in atti e in improvvisi comportamenti aggressivi”.

Ha destato molto stupore e ci si interroga sulle motivazioni che hanno condotto un giovanissimo studente delle medie di Sulmona ad accoltellare un collaboratore scolastico Ata, pochi giorni fa.

Capita che un adolescente possa mettere in atto un comportamento che, per la mente adulta, sia assolutamente impensabile. Si tratta, molto spesso, dell’espressione di una mancata capacità comunicativa, di disagio, sofferenza. Un insieme di problemi che non sono stati individuati. Non può trattarsi di un black out nato e consumatosi all’improvviso, poiché non esiste il black out: se esplode l’aggressività è perché manca qualcosa a livello comunicativo e non si è stati in grado di riconoscere determinate emozioni”, continua Chiara Gioia.

Si tende, ad esempio, a demonizzare la tristezza. Perché? Perché rimproverare chi piange? È importante educare al pianto, in quanto si tratta di un’emozione importante. I bambini e gli adolescenti devono imparare a riconoscere la tristezza, solo così riusciranno a gestirla. Specifichiamo che la tristezza può diventare un nucleo ibernato che può sfociare in tante altre forme espressive, anche di profondo disagio o violenza. Il bullo non nasce dall’oggi al domani, uno stato depressivo adolescenziale non nasce dall’oggi al domani, un’esplosione di aggressività non nasce dall’oggi al domani. Alle spalle e alla base c’è sempre un processo maturato nel tempo e, spesso, non riconosciuto. Questo è ciò che emerge soprattutto dai miei interventi nelle scuole: non è un caso se, oggi, tanti ragazzi si mostrano interessati al percorso psicologico. Una realtà liberata dal pensiero arcaico che vede la psicologia come il percorso per ‘curare la pazzia’. Anche in questo è importante saper comunicare. Comunicare l’importanza della psicologia, parallelamente all’importanza della comunicazione tra insegnanti e allievi e, ovviamente, tra genitori e figli. Soprattutto quando il mondo intorno è ingabbiato nelle morse di vincoli, incertezze e angoscia. Se manca la comunicazione tutti i processi che incameriamo diventano potenziali bombe esplosive. Quindi se la psicologia interviene a migliorare la comunicazione, a nutrirla, essa può fornire un sostegno prezioso agli adolescenti. Anche perché per bambini o adolescenti non c’è alcun giudizio da parte del terapista”

“La pandemia ha agito come compressione di tante cose che i ragazzi non hanno potuto vivere, per questo – mai come ora – può servire una guida per i ragazzi. Guida anche psicologica, come supporto educativo utile per gli stessi genitori“. 

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Le stagioni…dell’anima: il nostro mondo scandito da sole, neve e foglie che cadono

“Quando canta il merlo siamo fuori dall’inverno”, “Ad Ognissanti prepara i guanti”, “Una rondine non fa primavera”. Ci sono proverbi per tutte le stagioni. Detti tramandati dagli antichi, che sapevano osservare, leggere e interpretare il cielo, vivendo ogni stagione con il bagaglio delle loro esperienze.

 Un tempo non c’erano gli strumenti di oggi: quelle tecnologie che permettono di prevedere perturbazioni, alta o bassa pressione, allerte meteo o l’andamento, appunto, di ogni singola stagione. C’era il rosso di sera che faceva sperare nel bel tempo del giorno successivo e c’erano le tradizioni e i detti popolari, che governavano anche la lettura delle stagioni. Tuttavia, ogni luce, ogni stella, ogni cielo ha la sua influenza sull’umore e sulla sensibilità dell’uomo: ecco perché non è sbagliato parlare di stagioni dell’anima. Poiché ogni stagione porta con sé i suoi simboli, i suoi significati e anche i suoi stati d’animo, che possiamo ritrovare in ognuno di noi.

Stagioni: l’uomo e la natura

“Il progresso e il modo di vivere ‘moderno’ hanno portato alla perdita della capacità di cogliere i segnali dell’ambiente che ci circonda, a differenza di quanto accadeva nei tempi antichi, in cui era consuetudine che l’uomo fosse in grado di leggere il linguaggio del ciclo delle stagioni e, in generale, della Natura. Progressivamente è partito lo studio di questi fenomeni, per provare a comprenderne i meccanismi. Così facendo l’uomo ha imparato anche a conoscere sé stesso e il funzionamento dell’esistenza”, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

“Se andiamo ad analizzare l’etimologia della parola ‘stagione’ troviamo: ‘sationem’, cioè l‘atto di seminare e ‘stationem’, l’atto di stare, inteso come ‘fermata’. Il termine, quindi, indica una sosta, una posizione, una dimora, facendo riferimento alla posizione del sole durante solstizi ed equinozi. Trattando questa tematica, possiamo citare – in ambito artistico – l’interessante opera di Bartolomeo Manfredi ‘Allegoria delle quattro stagioni’, del 1610. L’opera mette in scena le personificazioni delle stagioni, sottoforma di due uomini e due donne in cerchio, simbolo del ciclo perenne. Nell’approfondire la relazione tra stagioni e condizioni psichiche, si viene a conoscenza di come l’inverno sia personificato da Saturno e, a volte, da Ade: divinità ctonie quindi proprietarie di profonde ricchezze, tenute ben nascoste. Per tale motivo, non si può ignorare il senso psicologico dell’inverno come periodo di introspezione, meditazione, riflessione profonda. Paragonabile ad un seme che è li che giace, simile a ciò che accade a volte ad un individuo: vale a dire quella necessità e quel desiderio di ‘riposare’ dentro noi stessi”. 

Stagioni

L’inverno

L’inverno, cioè, attiva una modalità che va di pari passo con il ritmo del tempo, sembra quasi un processo fisiologico. “Si segue l’andamento delle giornate andando a disintossicarsi da tutto ciò che può accelerare il ritmo della quotidianità. L’Inverno è la stagione simbolo della fine che precede il nuovo inizio e che ci consente di proiettarci nella fase vitale del processo creativo, per rinnovarsi. Vi si associa, quindi, questa particolare funzione psichica che, una volta giunta a conclusione, perché espressa, evoluta e consumata, è pronta ad accogliere e cedere il ruolo di protagonista alla Primavera, la quale – anch’essa – si peculiarizza con il suo simbolo: una corona di fiori”. 

La Primavera

La Primavera è rappresentata ad esempio da Giunone, ma anche da Giove o da Eros che suona un mandolino o un liuto; simboli questi, il primo della precarietà della vita – che quindi va vissuta bene e intensamente – il secondo dell’amore.
 L’incontro tra Primavera e Inverno simboleggia l’unione del giorno e della notte durante gli equinozi nelle due stagioni”. 

Con l’evolversi del ciclo delle stagioni entra in scena…

L’Estate

“Rappresentato da uno scenario di immagini ricche e feconde. Il caldo porta l’individuo a ‘spogliarsi’, a non coprirsi troppo, giusto il necessario. Lo porta, anche, ad essere anche più facilmente oggetto di seduzione.. ma, oltre l’aspetto esteriore, si può notare come tale periodo sia importante in quanto consente di evocare anche una necessaria contrapposizione: quella esistente tra l’occhio e lo sguardo, tra il vedere e il comprendere, tra l’esteriorità e l’interiorità“.


“Il nostro mondo intrapsichico – continua Chiara Gioia – partecipa a questo ciclo ben rappresentato dalle quattro stagioni. La Primavera e l’Estate sono le due stagioni principalmente legate al fare, ad un fare rivolto verso l’esterno. La prima è da sempre associata alla rinascita, quale espressione conseguente al periodo introspettivo che caratterizza invece la stagione invernale, pertanto l’immagine prevalente è la capacità di germogliare. Quest’ultima simboleggia l’atto della preparazione, del fare, per poi ‘fruttificare’ nell’Estate: il momento di massima maturazione”.

L’Autunno

“L’autunno è simboleggiato dalla corona di tralci di edera. Insieme all’inverno rappresenta quella fase di elaborazione del ciclo stagionale. È una stagione portatrice di emozioni, quali nostalgia e tristezza. È la stagione degli sbalzi d’umore. Da sempre associato al cadere delle foglie, all’immaginario della perdita, anche di una maggiore vulnerabilità, l’autunno instilla – in realtà – uno stato d’animo utile per traghettarci nelle stanze più oscure della nostra Psiche. È un’opportunità che ci si può concedere per potersi interfacciare con una forma di consapevolezza maggiore. L’autunno è anche il momento in cui si ha la possibilità di godere dei frutti prodotti”.

“Questa riflessione sulle stagioni risuona come un invito a considerare l’anima e il nostro mondo interiore non solo all’interno di noi stessi, ma anche fuori. Il nostro mondo intrapsichico, sia individuale che collettivo, va considerto e trattato allo stesso modo del mondo della natura, ovvero può esserci un germogliare, ma anche la necessità di lasciare che le cose crescano e poi cadano liberamente – come le foglie in autunno – o la necessità di ‘potare’ ciò che risulta nocivo, disfunzionale, per lasciare e creare uno spazio nuovo, sia fisico che intrapsichico che accolga nuovi semi. Le stagioni – conclude la psicologa e psicoterapeuta aquilana – rappresentano una chiara metafora di un percorso analitico. Esse così come  l’analisi sono metamorfosi, trasformazioni. Prima di poterne ammirare la bellezza, bisogna sapersi guardare dentro”.

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Eutanasia, tra diritti e dolori: quali ragioni dietro a una scelta

Eutanasia, perché scegliere di morire è un diritto. “Liberi fino alla fine” è il messaggio che accompagna la raccolta firme per chiedere che l’Eutanasia venga legalizzata in Italia, attraverso un Referendum. Sì, perché la morte indotta in Italia è considerata un reato.

Il tema Eutanasia parte dall’idea di morte, per questo è complesso ed estremamente delicato. Parlarne e scriverne è quanto di più difficile si possa fare, ciò non ci esula comunque dal farlo. Perché si sta combattendo una battaglia che si trascina da tanto tempo e che, finora, non ha mai cambiato nulla nel nostro Paese.

Quando si parla di Eutanasia spesso si sottovaluta o si riflette poco su quale sia lo stato d’animo della persona la assiste un proprio caro gravemente malato. Da giorni, mesi o anni.

La morte, le sue molteplici interpretazioni, la concezione della vita che finisce, la ferita e il suo significato, anche psicologico e, infine, perché si sceglie l’Eutanasia: al termine di un percorso lungo, travagliato, pensato e, soprattutto, personale.

Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

L’Eutanasia e la ‘buona morte’

“Parlare di eutanasia ci mette di fronte ad un tema eticamente sensibile. Etimologicamente è una parola di tradizione dotta, arrivata a noi attraverso un’attività di recupero. È una parola greca che appartiene al patrimonio antico, il cui significato è mutato nel tempo. Letteralmente significa ‘buona morte’, concetto apparentemente semplice, ma che – in realtà – è variamente interpretabile. Cosa debba intendersi per buona morte, infatti, dipende dai tempi, dai luoghi e dalle culture. Storicamente, poteva essere intesa una buona morte la morte eroica in battaglia o quella nelle guerre ‘sante’. Per qualcuno, purtroppo, una buona morte può essere addirittura il suicidio, ma sappiamo che così non è”, ci spiega Chiara Gioia. 

 

“Una ‘buona morte’ – continua – può essere intesa sotto vari punti di vista, in particolare: fisico, etico e spirituale. In senso fisico, ad esempio, la buona morte può riferirsi ad una circostanza naturate o indotta, volontaria o involontaria. In senso etico può indicare la morte cui si va incontro come ‘cosa’ giusta, con accettazione, quasi come fosse il perfetto completamento della vita. In senso spirituale, infine, la morte è un trapasso necessario, non fine ma cambiamento”.

E psicologicamente? 

“In questo caso, nell’ambito psicologico, la morte assume un significato altro rispetto a quelli già citati. Come simbolo la morte è ciò che distrugge l’esistenza. Quindi fa intendere ciò che viene meno, all’improvviso, che svanisce per sempre. È un concetto, inoltre, che introduce a mondi sconosciuti e dalle sfumature ambivalenti: si accosta a riti di passaggio. La morte è un mistero che viene inevitabilmente vissuto con angoscia, associato ad immagini di paura, senso di vuoto e solitudine, disperazione. Soprattutto, la morte porta ad interfacciassi con la dimensione della malattia e questo ci ferisce”.

La malattia e la ‘ferita’: non solo fisica

La malattia è un disturbo. Un male che riguarda gli individui e la società. Se, da un lato, è letta come mancanza, squilibrio, alterazione, dall’altro lato è un indizio, terrificante, della nostra mortalità. Ci aiuta a prendere coscienza della stessa, di una morte inevitabile. Del resto, la malattia è una ‘crepa’ che si crea nel nostro corpo, ma ancor prima nella psiche. Sì, perché la lacerazione causata dalla presa di coscienza, appunto, ha un fortissimo impatto emotivo. Le ferite, cioè, ci fanno sentire vulnerabili e spesso ci condizionano“.

 

“Vero è – continua Chiara Gioia – che nel processo psichico le ferite guariscono, ma affinché ciò accada è necessario prendersi cura di esse, senza evitarle o ignorarle. Ogni ferita ha bisogno del suo processo: va riconosciuta, valutata, pulita e ricucita, per quanto possibile”.

Rispondere al perché si sceglie l’eutanasia non è affatto facile. Si può, però, provare a individuare i motivi che conducono all’eutanasia. Motivi che possono essere infiniti.

“Ci sono, alla base della scelta, possibili motivazioni personali, culturali, legate al dolore o, anche, alla perdita di speranza. Ciò che è importante, tuttavia, è prestare attenzione a chi vive queste situazioni drammatiche, di grande sofferenza, spesso silenziosa. Per tanto tempo queste persone stanno accanto a una persona cara malata. Viene spontaneo chiedersi se, allora, la morte diviene oggetto della domanda oppure il desiderio di non volerla pensare, considerare. Certo è che nel momento in cui muore una persona a noi cara, quella morte diventa il riflesso della nostra morte. Ecco quindi che dietro la sofferenza del malato c’è la sofferenza di chi lo cura”.

“Capire ed elaborare, da parte di chi siede al fianco della persona malata, giorno dopo giorno, la sofferenza del proprio caro, vuol dire impedire che la stessa sofferenza prenda strade che ci sfuggono di mano. Tantissime sono le famiglie in cui c’è una persona che si fa carico, più di altre, della cura di un caro malato. Trattasi del caregiver primario: un compito di responsabilità, che implica un investimento di energie spesso per anni e anni e che, per questo, necessita di attenzioni. Anche il caregiver deve essere assistito, protetto da rischi esterni ed educato a gestire la situazione delicata, anche a livello emotivo, senza esserne travolto dal punto di vista psicofisico e sociorelazionale. Il ‘fare’ del caregiver conclude la psicologa e psicoterapeuta Chiara Gioia è sicuramente mosso e portato avanti nel tempo con amore e dedizione, ciò, però, non lo solleva dall’essere comunque un compito gravoso. Con una ricaduta a livello psichico importante, soprattutto quando si maschera la propria preoccupazione di ciò che sarà un domani. Vanno considerati, poi, i livelli di stress, ansia e depressione a cui il Caregiver è soggetto. Per tutte queste ragioni è indispensabile accogliere ogni possibile strategia per evitare di farsi carico in solitudine di situazioni difficili, col rischio di esserne vittime e di provocare conseguenze ancor più pesanti di quelle già vissute”.

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Haters, l’odio anonimo dei leoni da tastiera: cosa c’è dietro

“Sei di plastica”, “Sei grassa come una balena!”, “Ma come ti conci? Sei una mamma!”, “Sei solo f*****, contro natura!”. “Parassiti, rimandateli a casa sui loro barconi”. Dall’invidia, al razzismo, dall’omofobia al semplice odio social: il peggio dei media, spesso, si può racchiudere nella violenza linguistica degli Haters. Persone che spesso, però, non si accorgono che ‘gli altri sono anche loro’.

Chi sono gli Haters? Odiatori seriali che sul web hanno trovato la loro piazza dello scherno preferita e che si nascondono dietro un profilo social, frequentemente falso.

Da dove nasce tanto odio? E perché, sul web, spuntano Haters e Leoni da tastiera come funghi? Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia. 

“Vengono definiti Leoni da tastiera coloro che provano piacere nel deridere e insultare gli altri, senza poter essere identificati. Quasi come fosse un mestiere che abbia finalità ultima quella di postare e commentare sui social – e in generale sul web – argomenti ‘scomodi’ per il riconoscimento collettivo, attivando ciò che nel gergo virtuale viene definita shitstorm“. 

Una tempesta di odio, in cui ogni goccia è un mix di denigrazioni, insulti, offese. Espressioni di un odio che riesce ad esprimersi e consumarsi nel mondo virtuale: una dimensione nel quale, spesso, si ha la convinzione che tutto sia concesso“.

L’attività degli haters – spiega Chiara Gioia – è un chiaro riferimento dell’impatto che un mezzo, quale il web, ha sulla mente umana. L’avvento di internet ha comportato un passaggio da una cognizione sociale ad una cognizione virtuale. Sono venute meno, cioè, la bellezza e l’importanza di viversi rapporti diretti: cogliendone le vere emozioni, le sensazioni, i sentimenti. Ciò ha fatto sì che si alimentassero atteggiamenti disfunzionali, come quello tipico degli haters”.

“Il comportamento degli haters si nutre del fato che il male fa più notizia del bene, quindi richiama maggiormente l’attenzione. Mentre il bene è discreto, nascosto. Come recita un aforisma attributo a Lao Tzu: «Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce»”.

E a fare rumore, nelle ultime settimane sono state due polemiche che hanno visto gli Haters di nuovo al centro dell’attenzione. La prima, ha riguardato il tema del Catcalling, chiamato in causa dalla giovane Aurora Ramazzotti, ora tra Le Iene dell’omonimo Programma Mediaset. Le è bastato lamentare i fischi e le urla lanciatele per strada, ogni giorno, mentre va al parco a correre per essere sommersa dagli insulti social.

Qualche settimana fa, invece, un’altra polemica ha coivnolto la giornalista del Corriere della Sera Elvira Serra, pesantemente criticata e insultata dopo aver scritto un articolo su Luana D’Orazio, la mamma 22enne inghiottita e uccisa da un orditoio, nella fabbrica in cui lavorava a Pistoia.

Ma perché tanta facilità d’odio e tanta violenza nelle parole?

Haters, “l’arma” dell’anonimato è l’incentivo a non avere freni

I social hanno visto, nel tempo, il proliferare di profili falsi: creati per avere un’identità virtuale non riconducibile alla propria. E proprio queste numerose “identità non definite unite alla possibilità dell’anonimato diventano potenti strumenti per poter umiliare altre persone, ovviamente online. Di conseguenza, la de-individuazione si trasforma nell’arma di cui molti si avvalgono per far emergere l’odio e l’ira che albergano dentro ogni psiche, ma che spesso non sono riconosciuti né, quindi, canalizzati”. 

L’odio per ciò che siamo, ma che non accettiamo

L’odio social si manifesta attraverso l‘hate speech, il ‘linguaggio’ degli haters. Secondo l’Enciclopedia Treccani si tratta “nell’ambito dei nuovi media, di quell’espressione di odio e incitamento all’odio di tipo razzista, tramite discorsi, slogan e insulti violenti, rivolti contro individui, specialmente se noti, o intere fasce di popolazione (stranieri e immigrati, donne, neri, omosessuali, credenti di altre religioni)”.

Ma cosa odiamo? “La psicologia dello sviluppo mette in evidenza come l’odio sia una chiara espressione di una carenza riguardante l’integrità della psiche: ad esempio la svalutazione dell’altro, la proiezione con cui si nega la presenza in sé di sentimenti e aspetti inaccettabili, attribuendoli all’altro. Un ‘Altro’ che viene per questo rifiutato. In tal modo, distruggendo l’altro, anche quella parte che ci portiamo dentro – ma che occultiamo – viene eliminata”, evidenzia la psicologa e psicoterapeuta Chiara Gioia.

“Quella degli haters sembrerebbe essere un’emotività incontrollata”

“L’essere umano è complesso ed è complesso il nostro teatro psichico interno. Odio e amore non si escludono: possono coesistere. Ma bisognerebbe lavorare psicologicamente sui propri lati oscuri, che si rifiutano o si è convinti di non esser parte integrante di noi stessi. I cosiddetti lati Ombra: vale a dire la sede in cui albergano le passioni negative, forti o deboli che siano, ma ineliminabili. Ne deriva la difficoltà di gestione di queste passioni distruttive, soprattutto se non sono riconosciute. Perché – è Jung a ricordarcelo – quando esse provengono dalle profondità dell’inconscio e contengono tracce malate, si manifestano in modo deformato”.

“La difficoltà maggiore sta nel saper canalizzare tali sentimenti disturbati. Viceversa lo sviluppo tecnologico e oggi Internet ci consentono di esprimere con facilità e senza freni le pulsioni che albergano nella nostra psiche. L’ombra, tuttavia, non è solo un vaso di Pandora che contiene tutti quei mali negati e rimossi: nel suo fondo si possono trovare anche parti della nostra personalità utili, creative, genuine, che per varie ragioni abbiamo tagliato via da noi stessi, a volte a caro prezzo per la nostra individuazione personale”.

Odio e Ira, come imparare a distinguerli

L’odio è un “sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui” (Treccani). Può essere rivolto a gruppi, famiglie e clan e può avere alla base motivazioni di varia natura: culturale, razziale, religiosa, storica.

“La forza rilevante di questo sentimento è dovuta al fatto che non si ha a che fare con una emozione primaria, ma piuttosto con una miscela variegata di sentimenti e atteggiamenti, frutto della personalità, della storia e delle relazioni dell’individuo. Le molteplici manifestazioni dell’odio hanno alla base delle peculiarità ben specifiche, come ad esempio la passione e la potenza legate alla decisione, ovvero il poter decidere, in questo caso, chi, come e perché attaccare l’Altro: diverso e per tale motivo inconcepibile da accettare“.

In cosa l’odio è diverso dall’ira? 

“L’odio è freddo, programmato nella sua attuazione: come avviene ad esempio nella modalità persecutoria degli stalker, oppure nella pianificazione di atti terroristici. Lo si può, comunque, esprimere in maniera emotiva se unito all’ira, con cui ha analogie e differenze”, spiega ancora la psicologa e psicoterapeuta aquilana.

L’ira, come l’odio, nasce da una tristezza presente nell’animo, per un danno subìto o per la perdita di un bene ritenuto importante. Da qui emerge la volontà di intervenire sulla situazione per cambiarla a proprio favore. Il sentimento dell’ira è mosso da una richiesta di giustizia. Ira che si differenzia dall’odio perché è concreta e individuale: legata a una persona o a un avvenimento preciso. L’odio invece è generalizzato, rivolto a un’intera classe sociale o categoria di persone. Inoltre, l’ira esprime un dolore occasionale, che con il tempo tende a scomparire, cosa che invece non accade nell’odio, che è permanente e pecca nella capacità di valutazione e ponderazione propria della ragione. Chi ne è succube tende ad essere unilaterale, incapace di differenziare”.

Cosa vuol dire essere incapaci di differenziare? “Non riuscire a distinguere le nostre parti intrapsichiche. Perché le rappresentazioni psichiche legate all’odio tendono ad essere oppositive, dividendo la narrazione in valutazioni nette: in termini di buono/cattivo, giusto/sbagliato. Per provare a superare queste problematiche, servirebbe un percorso in terapia”.

L’ira, al contrario – continua Chiara Gioia – ‘si rivolge sempre al singolare concreto’. Se l’ira è impetuosa, del resto, è pur vero che si arresta una volta che ha ottenuto giustizia, mentre l’odio non conosce la pietà e, anche una volta annientato il suo oggetto, non sembra affatto trovare pace. Esso piuttosto cresce con il tempo, fino a diventare l’unica modalità di valutazione e azione, e termina soltanto con la distruzione di colui che lo coltiva. L’ira può comunque essere alla base dell’odio, nel momento in cui degenera e perde la misura e il controllo. Ad esempio la stessa bellezza può essere considerata offensiva per chi se ne ritiene privo“. 

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Cybersex e sexting, quando anche il sesso diventa virtuale

Internet come risposta a tutto, anche al sesso. Il 25% nelle ricerche sui siti web è di tipo pornografico e in tempi di Covid la sessualità è diventata spesso contactless, cioè virtuale. Lo dimostrano i dati in aumento su Cybersex e Sexting: strascichi e conseguenze dei contatti sociali vietati.

Cybersex e Sexting, cosa sono? Innanzitutto è bene precisare che non si tratta della stessa cosa.

Il Cybersex è “l’uso di siti per adulti, finalizzato ad avere relazioni sessuali virtuali. Messaggi con contenuti espliciti, fantasie erotiche, scambia di email o annunci per incontrare partner sessuali, masturbarsi davanti a una webcam”, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

Il Sexting, invece, “non va reso in senso interscambiabile con il concetto di Cybersex”, spiega ancora Chiara Gioia. “Per sexting, infatti, si intende quella pratica tesa ad inviare testi, messaggi, video o immagini a contenuto sessuale esplicito, attraverso l’uso di dispositivi informatici”.

Entrambe le pratiche possono causare dipendenza. 

“Le tre componenti principali che favoriscono questi comportamenti sono:

l’anonimità, la possibilità di avere un’identità virtuale diversa da quella reale“,

-la convenienza, basti pensare alla facilità dell’accessibilità,

– l’evasione, almeno apparente, dai problemi della vita quotidiana e da eventuali sofferenze. Il cyber-sex, infatti, può accompagnarsi a disfunzioni nella sfera emotiva in ambito e familiare e socio-relazionale”.

Cybersex, il sesso sempre più online durante la pandemia

I dati disegnano un quadro piuttosto chiaro: ogni secondo 28.258 persone stanno guardando contenuti pornografici in tutto il mondo del web, ogni giorno appaiono su internet 266 nuovi siti porno.

Un porno sempre più di tendenza, stando ai numeri, soprattutto in tempi di pandemia.

Perché, a prescindere dalla pandemia, si tende sempre più a prediligere relazioni virtuali che reali?

Nella relazione virtuale è possibile esercitare maggiore controllo, maggiore libertà di scegliere e di fare azioni (o prestazioni) che non faremmo mai nella vita reale. Una relazione reale, inoltre, implica incontri, confronti, aspettative, paura di deludere o di restare delusi, flussi di emozioni più coinvolgenti. Cybersex e Sexting portano l’individuo ad interfacciassi con la paura: la paura dell’altro, di esporsi e non essere accettati così come si è e, di conseguenza, di restare soli. Paure che l’individuo incontrerebbe con i rapporti reali“. 

E poi c’è stato l’effetto Covid. “È facile immaginare che, in questo delicato e particolare periodo storico, l’emergenza sanitaria abbia obbligato tutti a mediare le relazioni tramite lo schermo di un computer o di un telefono, alimentando questi fenomeni virtuali. Da un lato il web si è costituito e si costituisce come una risorsa contro la carenza di stimoli della pandemia; dall’altro rischia di amplificare i fenomeni di Internet Addiction. La tecnologia, che all’alba di questa pandemia è apparsa come il salvavita delle relazioni sociali e affettive, se non viene usata con consapevolezza e responsabilità, potrebbe mostrare un ulteriore lato oscuro”.

Cybersex, non sempre è una dipendenza

Parlare di cyber sex non vuole dire necessariamente parlare di dipendenza. Infatti, quando parliamo di dipendenze, facciamo riferimento a tutte quelle alterazioni del comportamento che trasformano un atteggiamento in una ricerca costante e patologica del piacere, attraverso mezzi, sostanze o comportamenti. In questo modo, chi ne è affetto perde il controllo sull’abitudine sviluppando questa condizione. Le dipendenze possono riguardare diversi atteggiamenti e possono essere legate a diverse sostanze: si può parlare, ad esempio, di dipendenze da sostanze stupefacenti, dipendenze alimentari, relazionali, tecnologiche o sessuali“.

La dipendenza da sesso virtuale fa riferimento ad un tipo di dipendenza di natura sessuale

“Chi ne soffre vive una dipendenza da attività sessuale virtuale su Internet, che può innescare varie problematiche a livello economico, fisico e psicologico. La dipendenza si manifesta mediante tutte quelle attività che possono essere svolte su internet come ad esempio videochiamate, chat erotiche, sesso telefonico o virtuale attraverso webcam. Vivere questa dipendenza genera nell’individuo un insieme di sensazioni che consentono la libertà di esternare fantasie e pensieri che, nella vita quotidiana, vengono spesso represse o limitate. Possono anche non essere gestite in modo funzionale per la paura del giudizio e del rifiuto da parte della collettività“, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta.

La dipendenza da attività sessuali virtuali è riconosciuta come cybersexual addiction e ha luogo quando la persona ricerca e utilizza il materiale erotico disponibile sul web in modo sempre più compulsivo, fino a considerare queste pratiche la principale e, talvolta unica, fonte di gratificazione sessuale. La conseguenza di tutto ciò è un sempre maggiore isolamento del soggetto, un graduale disinvestimento sul partner reale, la presenza di sensi di colpa e vergogna sempre più pervasivi, che contribuiscono ulteriormente all’isolamento sociale della persona“.

Accanto al fenomeno del Cybersex c’è la pratica del Sexting, molto diffusa soprattutto tra i giovani

“Il Sexting è particolarmente diffuso tra preadolescenti e adolescenti tra il 12 e il 17 anni, per varie ragioni, quali ad esempio il fatto che la conoscenza del sesso tramite web è immediata e di facile accesso, inoltre spesso è al di fuori del controllo degli adulti, porta ad un soddisfacimento sessuale più rapido, protegge dalle potenziali e più probabili delusioni che derivano dal mettersi in gioco in una relazione reale”.

Anche il sexting porta con sé una serie di conseguenze negative

“Come perdere il controllo sul materiale inviato, col rischio che venga diffuso in modo eccessivo e inaspettato, essere soggetti a umiliazioni e prese in giro da parte dei pari (si parla in questo caso di cyberbullismo), con conseguente isolamento sociale e vissuti di vergogna, senso di colpa, depressione e inadeguatezza. C’è poi il rischio di essere esposti a tentativi di estorsione o diffusione di materiale pornografico minorile (reati per i quali anche i minorenni sono penalmente perseguibili)”.

Cybersex e Sexting, la lettura psicologica

“Il web può aprirci a un mondo online del porno che è sconfinato e non pone alcun limite alla fantasia erotica. Un’ampia scelta che può generare lunghe ore di ricerca del materiale online che, ripetendosi, possono assumere carattere compulsivo e quindi di dipendenza”. 

Gli utenti percepiscono il loro computer come una estensione della loro mente e della loro personalità, uno “spazio” che riflette le loro inclinazioni, attitudini e interessi. Ecco quindi che, in una visione particolarmente psicoanalitica, il computer e di conseguenza il cyberspazio possono essere considerati come un tipo di ‘spazio transizionale’, quindi una estensione del mondo intrapsichico dell’individuo. Esso può essere sperimentato come una zona intermedia tra sé e l’altro. Comunicare on-line, infatti – conclude Chiara Gioia consente di proiettare sull’interlocutore, che non ha un’immagine ben definita, fantasie e desideri. Le interazione on-line possono essere classificabili lungo un continum che va dalla semplice curiosità al coinvolgimento ossessivo”.

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Portrait of happy classmates at workplace using laptop at lesson

Web Black & White: educare i giovani alla digitalizzazione

Web Black & White: la digitalizzazione dei giovani, educarli e formarli al corretto uso delle tecnologie. Questa la mission del progetto voluto dalla psicologa aquilana Chiara Gioia e presentato questa mattina a L’Aquila.

 La presentazione del progetto Web Black & White è avvenuta nel Musp di via Ficara che attualmente ospita la scuola media patini. Erano presenti, oltre la dottoresse Gioia, il vice sindaco Raffaele Daniele, l’assessore del Comune dell’Aquila con delega alle Politiche sociali, Maria Luisa Ianni, i dirigenti scolastici, Gabriella Liberatore (Patini) e Serenella Ottaviano (Cotugno).

“Attualmente i minori iniziano ad utilizzare la rete ad un’età sempre più precoce”, spiega al Capoluogo la dottoressa Chiara Gioia, referente del progetto e presidente dell’associazione AGAPE.

La scuola, con il suo scopo educativo, è al centro di questo progetto, reso fondamentale soprattutto adesso, in questo momento storico. A fare da spartiacque nell’era digitale c’è anche la pandemia che ha imposto un isolamento colmato in parte proprio dalle tecnologie.

web black & white

Dalla dad allo smart working internet è entrato con ‘prepotenza’ nelle case di tutti, offrendo numerose possibilità: di gioco, di creatività, ma queste potenzialità non vengono sfruttate appieno e occorre ancora rafforzare la fiducia dei minori in primis in se stessi e parallelamente anche nei confronti degli adulti di riferimento, ovvero le due agenzie per eccellenza, quali sono scuola e famiglia”, chiarisce la dottoressa Gioia.

Emerge quindi la necessità, “di far nascere la capacità, nei ragazzi coinvolti in questo progetto, di sapersi autogestire ed autoregolarsi, sviluppando la capacità di selezionare, riconoscere, evitare e diffidare da quello che la rete oggi propone: in questo modo i ragazzi possono essere davvero i protagonisti della loro dimensione sociale troppo spesso scambiata o confusa con quella virtuale”.

“Oggi nascono in continuazione nuovi servizi e nuove tendenze che nascondono potenziali rischi per la sicurezza dei minori. Non basta più proteggere i minori online, occorre diffondere una cultura digitale tra i giovani per consentire loro di proteggersi e navigare in maniera responsabile: investire sull’educazione e formazione al corretto uso delle tecnologie”.

web black & white

Web Black &White si pone quindi come la mano, “Di cui tutti i giovani di questa realtà digitale hanno bisogno, vivendo in primis la dispersione, la scissione, la disgregazione nelle relazioni sociali, in quanto si è venuta a creare maggiormente una rete di relazioni virtuali, di più facile accesso”.

“Come amministrazione comunale siamo particolarmente fieri di essere parte di questo progetto. Da genitore vivo costantemente questa paura mista al non poter bloccare il progresso di quando un figlio va su Internet. Una maggiore sicurezza di pari passo con una migliore alfabetizzazione digitale possono aiutare anche noi adulti ad avere consapevolezza e soprattutto gli strumenti per stare vicino ai nostri ragazzi”, è il commento del vice sindaco Raffaele Daniele.

La scuola diventa un luogo importantissimo dove veicolare e sensibilizzare anche sui pericoli del web. “Per questo siamo partiti proprio da qui, dalla scuola”, ha detto l’assessore Maria Luisa Ianni.

La scuola ha mostrato grande capacità di adattarsi alla pandemia. Ci siamo resi conto che la fascia di età colpita e interessata è quella che va dagli 11 ai 16 anni ed è quindi importantissimo agire adesso. La prevenzione primaria aiuta le famiglie e i ragazzi nel  ‘pre problema’. Il web è capace di determinare lo stile di pensiero dei nostri giovani e la rete ha la capacità di influenzarli. Noi adulti non abbiamo gli strumenti, i ragazzi sono molto più veloci di noi e questo può creare delle difficoltà”.

Nella rete crescono e vengono anche stimolati: il problema che vogliamo risolvere con Web Black & White è andare a individuare le devianze di un utilizzo della rete non corretto. Riconoscere i contenuti e discriminarli tutelando così la propria privacy”, conclude.

“Abbiamo sposato con entusiasmo questo progetto fondamentale per i nostri ragazzi soprattutto in un periodo storico in cui l’immediatezza di un click diventa anche preziosa e fondamentale“, è il commento delle dirigenti scolastiche Gabriella Liberatore e Serenella Ottaviano.

“L’uso inconsapevole della tecnologia, non solo nei minori ma anche negli adolescenti e degli adulti può creare molti problemi. Alfabetizzarsi al digitale consente di recuperare alla base una conoscenza dei rischi emergenti che possono essere molto dannosi”.

Web Black & White: le fasi del progetto

L’intervento per le 12 ore di formazione sulla tematica del grooming prevede: numero totale di alunni pari a 120 età compresa tra 12 e 15 anni; l’intervento sarà concluso entro dicembre 2021.

L’intervento nell’ambito artistico di n 3 ore per classe è previsto esclusivamente a fine intervento in ambito psicologico ed in ambito informatico su tutte le classi coinvolte in questa prima fase;

Durante gli interventi nell’ambito psicologico verranno somministrati, agli alunni coinvolti, n 3 questionari anonimi (di ingresso, in itinere e valutativo) elaborati dall’equipe di intervento, finalizzati a raccogliere dati necessari per analizzare la tematica di interesse proposta ai ragazzi.

Le 3 ore relative all’incontro di restituzione con gli Insegnanti degli alunni delle classi coinvolte verrà stabilito in sinergia con il corpo docente, in un unico incontro. I referenti di tale incontro saranno: Dott.ssa Gioia Chiara e l’Ing Franciosi Cristian.

Le 3 ore relative all’incontro di restituzione con i genitori degli alunni delle classi coinvolte verrà stabilito successivamente all’intervento formativo nell’ambito artistico, in un unico incontro; qualora i genitori non dovessero partecipare, l’equipe resta a disposizione della Dirigente scolastica per poter usufruire di tale spazio per coinvolgere anche altri docenti, finalizzato alla sensibilizzazione della tematica trattata. I referenti di tale incontro saranno: Dott.ssa Gioia Chiara e l’Ing Franciosi Cristian
Si specifica meglio che tale intervento formativo è comprensivo dell’azione propedeutica di gestione e preparazione come di seguito specificato:

preparazione dei questionari (in forma anonima) da somministrare e finalizzati alla raccolta del campione dati;

preparazione del materiale informativo degli argomenti trattati;

compresenza di più professionisti durante i singoli interventi;

analisi dati volta alla restituzione orale cartacea e digitale dei rispettivi report.

Privacy

I dati raccolti attraverso la somministrazione di questionari anonimi pre, in itinere e post intervento, verranno successivamente inseriti all’interno di una Base di Dati (proprietaria dell’Associazione di Promozione Sociale Agape) caratterizzata dalla totale assenza di elementi identificativi riconducibili agli autori e/o ai dati personali degli stessi.
● La raccolta dati verrà impiegata per la realizzazione di grafici statistici necessari per la corretta generazione dei Report digitali e cartacei necessari.

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Scuola post Covid, l’emozione di tornare in classe

Scuola e nuovi inizi. A due settimane dal ritorno tra i banchi come stanno i ragazzi? Stop forzato causa Covid19, lezione online, poi l’estate. Ora si è tornati in classe, rigorosamente in mascherina.

Il primo dato che salta all’occhio è che, in questa ripartenza, qualcosa è mancato: a volte le insegnanti per l’assistenza agli alunni, altre volte addirittura i banchi, aspettando quelli a rotelle. La didattica in presenza, però, è ripartita ovunque in Italia, tornando a cadenzare le giornate di studenti e genitori. L’allegria di rivedere i propri compagni, spesso ha incontrato il disagio di dover mettersi i libri sulle gambe. Anche a L’Aquila. 

Nella ripresa dell’attività scolastica si possono individuare tre tappe fondamentali: l’ordine, la necessità e l’accoglienza. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Chiara Gioia, psicologa e psicoterapeuta aquilana.

Scuola, ripartiamo dall’Ordine

Il punto di partenza è avere una scuola sicura e in presenza, presupposti imprescindibili per questo ritorno. “La scuola viene considerata l’agenzia educativa per eccellenza, insieme alla famiglia. Un luogo di confronto, dove si attua la strutturazione della propria personalità. Un ambiente importante sia per chi intraprende questo percorso per la prima volta, quindi i bambini più piccoli, sia per chi ha visto il proprio percorso di crescita formativa interrompersi bruscamente, nel marzo scorso, per cause di forza maggiore”, spiega Chiara Gioia alla nostra redazione.

La riapertura della scuola, allora, ha portato alla “riattivazione del concetto di ordine. Vale a dire l’organizzazione di svolgimento delle nostre attività, secondo criteri rispondenti al concetto di armonia“.

Le abitudini cambiate dal lockdown e una quotidianità ridisegnata prima e ‘ri-attivata’ poi.

Ritorno a scuola, dall’Ordine alla Necessità

La pandemia ci ha catapultati nel disordine, riassumibile nella perdita dei rituali della giornata. Scuola, attività sportive, lavoro, hobby: tutto in pausa. Oggi, quindi, nasce la necessità di capire quali sono le nuove o vecchie necessità personali. Non è detto che siano rimaste le stesse del pre-Covid.

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scared and alone, young Asian child who is at high risk of being bullied, trafficked and abused, selective focus

Giornata per la prevenzione del suicidio, il “fattore Covid” moltiplica le solitudini

Il 10 settembre è la Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio. Cause e attività di prevenzione al tempo del Covid 19 con la dottoressa Chiara Gioia.

Da marzo a oggi in Italia si sono registrati 71 suicidi e 46 tentati suicidi, presumibilmente correlati a Covid-19, a fronte di un numero di suicidi per crisi economica che nello stesso periodo del 2019 si attestava a 44 e quello dei tentati suicidi a 42. Lo segnalano gli psichiatri al Convegno Internazionale sulle tematiche legate al suicidio, organizzato dalla Sapienza Università di Roma, in occasione della Giornata Mondiale per la prevenzione del suicidio del 10 settembre. Ma il Covid 19, con il suo corredo di “isolamento”, è solo uno dei tanti fattori che possono essere ritenuti “cavatappi” rispetto a quelle problematiche che possono avere esiti tragici rispetto al suicidio.

“Il suicidio – spiega a IlCapoluogo.it la psicologa e psicoterapeuta Chiara Gioia – nel mondo rappresenta la terza causa più frequente di morte. Dal punto di vista psicologico, il suicidio viene considerato rispetto agli enigmi sulla vita, la sofferenza, sul “valerne la pena” rispetto alla vita in un momento particolarmente difficile, ma non è un ‘atto improvviso’, come spesso appare dalle cronache. Occorre tener presente che il nostro mondo intrapsichico è come se fosse abitato da ‘personaggi’ normalmente in equilibrio tra loro. Nel momento in cui la realtà concreta non è più in sintonia con questo mondo interiore si possono generare disagi, più o meno gravi”. In concreto, possono essere disagi economici, lutti (intesi in senso stretto o lato, come lutti per una separazione) e altri i “fattori scatenanti” rispetto però a un disagio interiore già in atto.

Capitolo a parte per le problematiche legate al Covid 19: “Al momento c’è una tempistica che non ci permette di effettuare correlazioni scientifiche definitive, ma è chiaro che certi dati del Convegno Internazionale sono significativi. Proviamo a pensare a quella prima infermiera che si era suicidata, pensiamo alla sofferenza che già il personale sanitario è abituato vivere quotidianamente, è chiaro che la pandemia ha assunto ruolo di ‘cavatappi’ rispetto ai disagi accumulati nel tempo. Dal punto di vista psicologico, inoltre, il Coronavirus ha portato all’amplificazione della solitudine e dell’isolamento sociale“.

Solo la prevenzione, quindi, può contrastare un fenomeno che in un periodo di pandemia rischia di aggravarsi: “Purtroppo il suicidio è considerato ancora un concetto tabù, in quanto esito tragico di una sofferenza mentale e psicologica; dobbiamo aiutare tutti a comprendere che tutto si può dire e tutto si può affrontare nel modo giusto. Ci sono figure professionali competenti che possono guidare la persona nel proprio mondo intrapsichico. La prevenzione su larga scala è possibile nel momento in cui il ruolo dello psicologo non viene associato a un ‘malato di mente’, ma come un supporto per tutti, al di là del potenziale problema critico”.

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