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Risse tra ragazzi: il protagonismo negativo che dobbiamo curare

Risse, violenza, disagi e mancanza di un senso del sé. E’ così che i ragazzi da apparenti carnefici diventano vittime di un protagonismo negativo, spesso anche violento, che dobbiamo curare.

Negli ultimi giorni vi abbiamo raccontato di episodi di cronaca con ragazzi, spesso minorenni, protagonisti di risse violente. In centro storico il sabato sera, così come nei giorni normali all’uscita di scuola. Abbiamo parlato del fenomeno con Chiara Gioia, psicologa e psicoterapeuta.
Come si è arrivati fin qui?
“È innanzitutto di fondamentale importanza, per arginare il fenomeno, comprendere i meccanismi che vi sono alla base, per rispondere nel modo più adeguato. Andando oltre pensieri i quali ritengono che gli autori e spettatori di risse sono probabilmente frustrati dall’assenza di valori e di legami affettivi significativi, ritengo doveroso rimandare che tali fatti mettono in scena giovani per cui vivono sentimenti di vuoto che subiscono passivamente. Spesso questi gesti rappresentano dei modi attraverso cui emergere, oppure sono dei rituali interni al gruppo che vengono vissuti come fossero prove di coraggio, in cui l’atto deve essere riconosciuto, visibile, plateale, al proprio gruppo e non solo, anche ai semplici passanti, come dimostrano i fatti che in pieno centro o all’uscita di scuola e non in un luogo ‘nascosto’: la visibilità è un elemento essenziale”.

Gli adulti (scuola e/o famiglia) che ruolo hanno?
“Tali comportamenti, che non possono essere definiti solo frutto della ribellione adolescenziale e trasgressivi, bensì antisociali diventano di preoccupazione per gli adulti siano essi genitori, insegnanti, educatori. La risposta del mondo adulto a questi comportamenti è spesso allarmata, condizionata da pregiudizi e tentata da reazioni repressive che non solo sono inefficaci, ma spesso controproducenti, pertanto sulla base delle conoscenze derivanti dagli ultimi decenni di ricerca sulla trasgressività adolescenziale è invece possibile parlare di un intervento efficace. Gli adolescenti sono naturalmente trasgressivi ed il binomio tra adolescenza e trasgressività è stata da sempre riconosciuta. Può pertanto essere particolarmente difficile distinguere le situazioni in cui la trasgressività e l’aggressività sono al servizio e funzionali alla crescita e all’acquisizione di un’identità sociale e quelle in cui all’opposto sono l’espressione di una tendenza antisociale o l’inizio di espressioni di disagi molto più strutturati”.

Cosa c’è alla base di questi “reati”?
“Scarse motivazioni, la percezione di una mancanza di alternative decisionali, l’agire d’impulso, l’effetto di contagio deresponsabilizzante del gruppo, la scarsa empatia, anestetizzare le proprie emozioni, minimizzare il significato trasgressivo o aggressivo del comportamento, sono tutti tratti che spesso si ritrovano nei ragazzi che commettono reati e nella valutazione iniziale può essere difficile dire quanto siano l’espressione di tratti di personalità stabili, a specifiche condizioni del momento o siano piuttosto da attribuire ad una dinamica evolutiva. Anche il contesto sociale è determinante nell’emergere della trasgressività, in quanto contribuisce, attraverso la definizione di valori sociali condivisi, a stabilire ciò che è permesso o proibito, ponendo di fatto i limiti il cui superamento costituisce appunto una trasgressione, il cui valore può variare molto in base alla cultura o alla subcultura di riferimento.

Cosa fare per arginare il fenomeno?
“Intervenire in modo efficace con gli adolescenti trasgressivi ha una valenza anche dalla prospettiva delle politiche sociale e del welfare. Una prospettiva psicologica e psicoanalitica è fondamentale per riconoscere e comprendere l’appello che il comportamento antisociale dei ragazzi rivolge agli adulti. Necessario partire dall’individuare quel senso comunicativo del comportamento trasgressivo è, infatti, la premessa indispensabile per una risposta efficace da parte del mondo adulto. Una risposta che deve andare oltre la dicotomia tra la “cura” di un disturbo e la “punizione” di un gesto deviante e porsi al servizio di un percorso di crescita che altrimenti rischia di vedere nel gesto trasgressivo un muro invalicabile.

La rissa è un’azione simbolica, che ha lo scopo di superare un blocco, la manifestazione di un aspetto del Sé che non riesce ad esprimersi in altro modo.

“L’accento è da porre non tanto su un problema di controllo pulsionale e nemmeno su un problema relazionale, ma sulla mancanza di un senso di Sé in quanto adolescente, che si costituisca come contenitore di senso per il comportamento: l’antisocialità in questa prospettiva è un blocco nell’acquisizione di un’identità sociale, che da un punto di vista psicologico può essere intesa come acquisizione di un senso di Sé dotato di valore.
Come sia possibile aiutare l’adolescente a superare questo blocco evolutivo, in un modo che può apparire paradossale, è puntare l’attenzione sul processo di soggettivazione che supera il blocco evolutivo che potrebbe essere attivato non solo o non tanto attraverso lo sviluppo di una funzione riflessiva volta ad aumentare l’autoconsapevolezza, ma attraverso un intervento che assegna un ruolo centrale al rapporto con l’ambiente. Questa prospettiva implica che la costruzione del Sé in adolescenza è in primo luogo una funzione della relazione dell’adolescente con l’ambiente di sviluppo, come se il Sé si costruisse nella relazione di rispecchiamento con il contesto e non solo attraverso una riflessione o rispecchiamento nel mondo interno dell’adolescente”.

Quali gli interventi “rieducativi” in atto? Tra questi il progetto Web Black & White del Comune.
“Il cambiamento avviene attraverso nuovi investimenti di senso nelle relazioni tra il soggetto e i suoi oggetti, cioè gli ambienti, Le indicazioni di intervento possono essere molteplici proprio perché all’adolescente la realtà esterna offre opportunità di nuovi investimenti: trattamenti psicoterapeutici, pedagogici, psicopedagogici, orientamento scolastico, attività extrascolastiche, attività sportive, ridefinizione degli spazi familiari, progetti psicoeducativi realizzati su attente analisi dei bisogni, nel caso di questo ultimo basti ricordare il progetto “Web Black & White”, finanziato dall’Assessorato alle politiche giovanili del Comune di L’Aquila, volto al corretto uso delle tecnologie, trattando la tematica del grooming, che ha visto coinvolto ben 120 alunni delle scuole aquilane. In una prospettiva psicoanalitica tale funzione ambientale (esempio il progetto) non si riduce ad un intervento educativo comportamentale perché l’ambiente non svolge solo con funzioni, ma fornisce rappresentazioni, è un luogo che l’adolescente può riempire di significati”.

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Niente Bonus psicologico, l’ultimo colpo alla psicopandemia: così non si tutela la salute

Niente bonus psicologico in tempi di Psicopandemia.

Tantissime le conseguenze del Covid19 e degli stravolgimenti che il virus ha portato tra noi. Una realtà testimoniata dai dati. Autolesionismo, depressione giovanile, stress psicologico, disagi. Qual è stata la risposta dello Stato di fronte all’emergenza? Non il bonus psicologico. E forse mai come in questo momento la misura sarebbe stata preziosa per il benessere dei cittadini, perché non bisogna mai dimenticare che benessere non vuol dire solo non soffrire di malattie.

“Come ogni situazione estrema, una malattia porta alla luce quanto di meglio e di peggio c’è in ciascun individuo”, Susan Sontag

L’OMS definisce il benessere e la salute di un individuo come uno “stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”. Questa definizione “identifica la salute con uno stato di benessere fisico e psichico e la considera come fattore non solo individuale ma anche collettivo: ciò vuol dire che nel processo della salute sono partecipi non solo la condizione fisica generale, ma anche componenti psicologiche e sociali. In questo modo l’individuo viene considerato nelle sue tre dimensioni: biologica, mentale e sociale. 
Questo nuovo concetto di salute è in contrapposizione alla definizione tradizionale, che considerava la salute semplicemente come ‘assenza di sintomi’.” A parlare alla nostra redazione è la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

La Salute è un diritto

Che la salute sia un diritto lo stabilisce la Costituzione italiana che, nell’articolo 32, stabilisce i principi fondamentali per la tutela della stessa: intesa come diritto dell’individuo e di interesse della società.

“
La tutela della salute è così contemplata sotto un duplice profilo: da un lato viene affermato il diritto dell’individuo al recupero della piena efficienza fisica e funzionale (tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo); dall’altro viene riconosciuto e sancito il preciso interesse della collettività ad avere nei suoi vari settori individui pienamente validi (tutela della salute come interesse della società). Sappiamo anche come i concetti di salute, malattia e cura sono fortemente influenzati da variabili culturali e sociali, che implicano notevoli differenze sul piano delle politiche socio-sanitarie”.

Quale benessere psicologico in tempi di pandemia?

“A distanza di quasi due anni dall’arrivo del Covid19 ci si rende sempre più conto del precario equilibrio psichico di moltie di come il danno pandemico sia assolutamente a 360°. Misure di prevenzione della pandemia estremamente rigorose, seppur necessarie – quali la chiusura obbligatoria delle scuole, l’isolamento forzato, il blocco delle attività sportive e la sospensione di tante produzioni e attività commerciali non essenziali – hanno gravemente pregiudicato la vita quotidiana delle persone, la loro attività lavorativa e il loro futuro economico“.

Questa situazione ha “stressato” e indebolito psicologicamente moltissimi soggetti, aggravando problemi preesistenti. Le fragilità intrapsichiche sono un elemento comune di tutta la popolazione, in ogni fascia di età: dal bambino all’adolescente fino all’adulto, ma – in questo particolare momento – hanno riguardato e riguardano anche le coppie, le famiglie, gli anziani, gli operatori sanitari, i pazienti che hanno subito un lutto, coloro che hanno vissuto con manifestazioni più serie il Covid. E ancora coloro che già vivevano in condizione di salute psichica precaria prima della pandemia. All’improvviso tutto ha subito un mutamento, uno stravolgimento che necessita di esser supportato e riconosciuto come diritto del singolo e della collettività”.

Bonus Psicologico, un aiuto per essere ascoltati e per abbattere le difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti

“Se da un lato si avverte e si vive in primis la metamorfosi in negativo del Covid19 – continua Chiara Gioia – l’altra faccia della medaglia ci porta a fare una riflessione. Questa pandemia vuole sottolineare come sia necessario mutare forma mentis e modus operandi: ciò evidenzia l’importanza di saper considerare e saper ancor prima ascoltare il singolo e la collettività, per poter identificare, accogliere e lavorare i bisogni che emergono e necessitano di essere riconosciuti. La sofferenza psichica inascoltata, soffocata, non riconosciuta è indice di un’incapacità comunicativa. Ricordo, infatti che comunicare è saper ascoltare“. 

La comunicazione è il mezzo essenziale attraverso il quale si realizza il rapporto sociale. L’ascolto rappresenta uno dei momenti fondamentali nell’ambito del processo comunicativo, tanto da costituire, secondo alcuni, un pre-requisito della comunicazione stessa. Saper ascoltare vuol dire saper dare e non solo ricevere. L’ascolto è ‘profondo’ quando si fonda su disponibilità, accoglienza, non giudizio e non critica, su un’attenzione concentrata, sulla capacità di dimorare con calma nel silenzio, sull’ascolto di sé. L’ascolto profondo nasce da un interesse per gli altri e da un’attitudine a prendersene cura. E salute, benessere, ascolto e comunicazione sono tutti processi che fanno parte di un grande sistema, quello conosciuto con il nome di Stato sociale, o Stato del benessere”.

“Il cosiddetto Welfare state, secondo una definizione largamente accettata, ‘Un insieme di politiche pubbliche con cui lo Stato fornisce ai propri cittadini, o a gruppi di essi, protezione contro rischi e bisogni prestabiliti, in forma di assistenza, assicurazione o sicurezza’. Si interviene nello specifico a livello di assistenza sanitaria; istruzione pubblica; indennità di disoccupazione, sussidi familiari, in caso di accertato stato di povertà o bisogno e ancora previdenza sociale. È un sistema di norme con il quale lo Stato cerca di eliminare le diseguaglianze sociali ed economiche fra i cittadini, aiutando in particolar modo i ceti meno abbienti”. 

Il problema della tutela dei bisognosi è stato sempre presente, in forme diverse, in ogni comunità organizzata. Nel pieno della pandemia lo è ancora oggi.

Nel 1986 si tenne ad Ottawa in Canada, si tenne la Conferenza dell’OMS. Qui, fu adottata una carta sulla promozione della salute, “La Carta di Ottawa”.

Troviamo in questa Carta un’ulteriore definizione di promozione della salute: “La promozione della salute è il processo che conferisce alle popolazioni i mezzi per assicurare un maggior controllo sul loro livello di salute e migliorarlo. Questo modo di procedere deriva da un concetto che definisce la salute come la misura in cui un gruppo o un individuo possono, da un lato, realizzare le proprie ambizioni e soddisfare i propri bisogni e dall’altro, evolversi con l’ambiente o adattarsi a questo. La salute è dunque percepita come risorsa della vita quotidiana e non come il fine della vita: è un concetto positivo che mette in valore le risorse sociali e individuali, come le capacità fisiche. Così, la promozione della salute non è legata soltanto al settore sanitario: supera gli stili di vita per mirare al benessere.

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Adolescenti, esperienze mancate e poca comunicazione: ascoltiamoli prima del black out

Non è semplice essere adolescenti, soprattutto nel bel mezzo di una psicopandemia.

Se i dati nazionali raccontato di episodi di autolesionismo o di aggressività in crescita, di genitori in difficoltà nella gestione dei propri figli, la fascia degli adolescenti sembra essere quella che più ha risentito dello stravolgimento portato dalla pandemia. Pandemia che per tutti, ma soprattutto per loro, sembra sempre più assumere i contorni di una psico-pandemia. Con tutte le conseguenze del caso.

Hanno perso tanto gli adolescenti di oggi.

Anni di rapporti sociali, anni di formazione in presenza, anni pieni: di relazioni, di amicizie, di carezze dei nonni, di corse in bici con gli amici, di pigiama party in compagnia, di pomeriggi di gruppo alla play, di feste e tradizioni ormai care. Hanno perso quasi tutto, all’improvviso, e spesso si sono ritrovati a chiudersi in sé stessi.

“Per prima cosa bisogna considerare l’adolescenza come un periodo di passaggio per ogni individuo. L’adolescenza, infatti, è un ponte di collegamento tra il mondo del bambino e quello dell’adulto e comporta una necessità per ognuno di sperimentare e soddisfare tante curiosità: pensiamo a quelle relazionali, comunicative e alla necessità viva di fare nuove esperienze relazionali. Un turbinio di emozioni, anche a livello ormonale, che ovviamente richiede un’attenzione per definire la propria identità e il proprio modo di essere“, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

Poi è arrivata la psicopandemia

“È stato inevitabile che tutto ciò si arrestasse. Bloccando quelle possibilità di esplorare curiosità, esigenze…così come le volontà di scoprire ciò che siamo. L’adolescente inoltre, al di là della pandemia, ha anche necessità di interfacciassi con il mondo della psicologia. Nella mia esperienza concreta – sia come analista privata che come psicologa nelle scuole – ho osservato emergere un loro interesse nell’avvicinarsi al mondo della psicologia. Strumento non inteso come il bisogno di qualcuno che è malato, ma come terapia per capire le proprie emozioni, per ridurre l’eventuale divario comunicativo con i propri genitori o con i propri compagni. Se queste necessità, però, non vengono riconosciute nel modo giusto da parte degli adulti, l’adolescente rischia di portarsi dietro disagi anche profondi, che possono, in casi estremi, sfociare in atti e in improvvisi comportamenti aggressivi”.

Ha destato molto stupore e ci si interroga sulle motivazioni che hanno condotto un giovanissimo studente delle medie di Sulmona ad accoltellare un collaboratore scolastico Ata, pochi giorni fa.

Capita che un adolescente possa mettere in atto un comportamento che, per la mente adulta, sia assolutamente impensabile. Si tratta, molto spesso, dell’espressione di una mancata capacità comunicativa, di disagio, sofferenza. Un insieme di problemi che non sono stati individuati. Non può trattarsi di un black out nato e consumatosi all’improvviso, poiché non esiste il black out: se esplode l’aggressività è perché manca qualcosa a livello comunicativo e non si è stati in grado di riconoscere determinate emozioni”, continua Chiara Gioia.

Si tende, ad esempio, a demonizzare la tristezza. Perché? Perché rimproverare chi piange? È importante educare al pianto, in quanto si tratta di un’emozione importante. I bambini e gli adolescenti devono imparare a riconoscere la tristezza, solo così riusciranno a gestirla. Specifichiamo che la tristezza può diventare un nucleo ibernato che può sfociare in tante altre forme espressive, anche di profondo disagio o violenza. Il bullo non nasce dall’oggi al domani, uno stato depressivo adolescenziale non nasce dall’oggi al domani, un’esplosione di aggressività non nasce dall’oggi al domani. Alle spalle e alla base c’è sempre un processo maturato nel tempo e, spesso, non riconosciuto. Questo è ciò che emerge soprattutto dai miei interventi nelle scuole: non è un caso se, oggi, tanti ragazzi si mostrano interessati al percorso psicologico. Una realtà liberata dal pensiero arcaico che vede la psicologia come il percorso per ‘curare la pazzia’. Anche in questo è importante saper comunicare. Comunicare l’importanza della psicologia, parallelamente all’importanza della comunicazione tra insegnanti e allievi e, ovviamente, tra genitori e figli. Soprattutto quando il mondo intorno è ingabbiato nelle morse di vincoli, incertezze e angoscia. Se manca la comunicazione tutti i processi che incameriamo diventano potenziali bombe esplosive. Quindi se la psicologia interviene a migliorare la comunicazione, a nutrirla, essa può fornire un sostegno prezioso agli adolescenti. Anche perché per bambini o adolescenti non c’è alcun giudizio da parte del terapista”

“La pandemia ha agito come compressione di tante cose che i ragazzi non hanno potuto vivere, per questo – mai come ora – può servire una guida per i ragazzi. Guida anche psicologica, come supporto educativo utile per gli stessi genitori“. 

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Le stagioni…dell’anima: il nostro mondo scandito da sole, neve e foglie che cadono

“Quando canta il merlo siamo fuori dall’inverno”, “Ad Ognissanti prepara i guanti”, “Una rondine non fa primavera”. Ci sono proverbi per tutte le stagioni. Detti tramandati dagli antichi, che sapevano osservare, leggere e interpretare il cielo, vivendo ogni stagione con il bagaglio delle loro esperienze.

 Un tempo non c’erano gli strumenti di oggi: quelle tecnologie che permettono di prevedere perturbazioni, alta o bassa pressione, allerte meteo o l’andamento, appunto, di ogni singola stagione. C’era il rosso di sera che faceva sperare nel bel tempo del giorno successivo e c’erano le tradizioni e i detti popolari, che governavano anche la lettura delle stagioni. Tuttavia, ogni luce, ogni stella, ogni cielo ha la sua influenza sull’umore e sulla sensibilità dell’uomo: ecco perché non è sbagliato parlare di stagioni dell’anima. Poiché ogni stagione porta con sé i suoi simboli, i suoi significati e anche i suoi stati d’animo, che possiamo ritrovare in ognuno di noi.

Stagioni: l’uomo e la natura

“Il progresso e il modo di vivere ‘moderno’ hanno portato alla perdita della capacità di cogliere i segnali dell’ambiente che ci circonda, a differenza di quanto accadeva nei tempi antichi, in cui era consuetudine che l’uomo fosse in grado di leggere il linguaggio del ciclo delle stagioni e, in generale, della Natura. Progressivamente è partito lo studio di questi fenomeni, per provare a comprenderne i meccanismi. Così facendo l’uomo ha imparato anche a conoscere sé stesso e il funzionamento dell’esistenza”, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

“Se andiamo ad analizzare l’etimologia della parola ‘stagione’ troviamo: ‘sationem’, cioè l‘atto di seminare e ‘stationem’, l’atto di stare, inteso come ‘fermata’. Il termine, quindi, indica una sosta, una posizione, una dimora, facendo riferimento alla posizione del sole durante solstizi ed equinozi. Trattando questa tematica, possiamo citare – in ambito artistico – l’interessante opera di Bartolomeo Manfredi ‘Allegoria delle quattro stagioni’, del 1610. L’opera mette in scena le personificazioni delle stagioni, sottoforma di due uomini e due donne in cerchio, simbolo del ciclo perenne. Nell’approfondire la relazione tra stagioni e condizioni psichiche, si viene a conoscenza di come l’inverno sia personificato da Saturno e, a volte, da Ade: divinità ctonie quindi proprietarie di profonde ricchezze, tenute ben nascoste. Per tale motivo, non si può ignorare il senso psicologico dell’inverno come periodo di introspezione, meditazione, riflessione profonda. Paragonabile ad un seme che è li che giace, simile a ciò che accade a volte ad un individuo: vale a dire quella necessità e quel desiderio di ‘riposare’ dentro noi stessi”. 

Stagioni

L’inverno

L’inverno, cioè, attiva una modalità che va di pari passo con il ritmo del tempo, sembra quasi un processo fisiologico. “Si segue l’andamento delle giornate andando a disintossicarsi da tutto ciò che può accelerare il ritmo della quotidianità. L’Inverno è la stagione simbolo della fine che precede il nuovo inizio e che ci consente di proiettarci nella fase vitale del processo creativo, per rinnovarsi. Vi si associa, quindi, questa particolare funzione psichica che, una volta giunta a conclusione, perché espressa, evoluta e consumata, è pronta ad accogliere e cedere il ruolo di protagonista alla Primavera, la quale – anch’essa – si peculiarizza con il suo simbolo: una corona di fiori”. 

La Primavera

La Primavera è rappresentata ad esempio da Giunone, ma anche da Giove o da Eros che suona un mandolino o un liuto; simboli questi, il primo della precarietà della vita – che quindi va vissuta bene e intensamente – il secondo dell’amore.
 L’incontro tra Primavera e Inverno simboleggia l’unione del giorno e della notte durante gli equinozi nelle due stagioni”. 

Con l’evolversi del ciclo delle stagioni entra in scena…

L’Estate

“Rappresentato da uno scenario di immagini ricche e feconde. Il caldo porta l’individuo a ‘spogliarsi’, a non coprirsi troppo, giusto il necessario. Lo porta, anche, ad essere anche più facilmente oggetto di seduzione.. ma, oltre l’aspetto esteriore, si può notare come tale periodo sia importante in quanto consente di evocare anche una necessaria contrapposizione: quella esistente tra l’occhio e lo sguardo, tra il vedere e il comprendere, tra l’esteriorità e l’interiorità“.


“Il nostro mondo intrapsichico – continua Chiara Gioia – partecipa a questo ciclo ben rappresentato dalle quattro stagioni. La Primavera e l’Estate sono le due stagioni principalmente legate al fare, ad un fare rivolto verso l’esterno. La prima è da sempre associata alla rinascita, quale espressione conseguente al periodo introspettivo che caratterizza invece la stagione invernale, pertanto l’immagine prevalente è la capacità di germogliare. Quest’ultima simboleggia l’atto della preparazione, del fare, per poi ‘fruttificare’ nell’Estate: il momento di massima maturazione”.

L’Autunno

“L’autunno è simboleggiato dalla corona di tralci di edera. Insieme all’inverno rappresenta quella fase di elaborazione del ciclo stagionale. È una stagione portatrice di emozioni, quali nostalgia e tristezza. È la stagione degli sbalzi d’umore. Da sempre associato al cadere delle foglie, all’immaginario della perdita, anche di una maggiore vulnerabilità, l’autunno instilla – in realtà – uno stato d’animo utile per traghettarci nelle stanze più oscure della nostra Psiche. È un’opportunità che ci si può concedere per potersi interfacciare con una forma di consapevolezza maggiore. L’autunno è anche il momento in cui si ha la possibilità di godere dei frutti prodotti”.

“Questa riflessione sulle stagioni risuona come un invito a considerare l’anima e il nostro mondo interiore non solo all’interno di noi stessi, ma anche fuori. Il nostro mondo intrapsichico, sia individuale che collettivo, va considerto e trattato allo stesso modo del mondo della natura, ovvero può esserci un germogliare, ma anche la necessità di lasciare che le cose crescano e poi cadano liberamente – come le foglie in autunno – o la necessità di ‘potare’ ciò che risulta nocivo, disfunzionale, per lasciare e creare uno spazio nuovo, sia fisico che intrapsichico che accolga nuovi semi. Le stagioni – conclude la psicologa e psicoterapeuta aquilana – rappresentano una chiara metafora di un percorso analitico. Esse così come  l’analisi sono metamorfosi, trasformazioni. Prima di poterne ammirare la bellezza, bisogna sapersi guardare dentro”.

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Squid Game, più di una moda: il gioco per la sopravvivenza diventato una mania

Il fenomeno Squid Game non si arresta e non si arrestano le polemiche. Annunciata ufficialmente la seconda stagione, continuano episodi di cronaca, soprattutto nelle scuole, che sembrano ispirati proprio al survival game in scena nella serie coreana targata Netflix.

Squid Game, tutto un gioco, tutta finzione.

Eppure, tanti sono stati i comportamenti scaturiti, forse, dalla visione di una serie tv che è diventata, in pochi giorni, un appuntamento immancabile. In tantissimi l’hanno vista, anzi divorata: rapiti dalla storia di partecipanti, uomini e donne, a quelli che all’inizio sembravano essere soltanto giochi infantili. Spinti da un disperato desiderio di un incredibile montepremi, visto come la ricchezza e la panacea per tutti i mali e i problemi personali. Ben presto, però, il gioco non diventa altro che un’autentica lotta al massacro tra persone disperate.

Come sono riusciti Squid Game e i suoi giochi al massacro a conquistare tante persone e a condizionarne le azioni?

Lo abbiamo chiesto alla psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia, la quale ci aveva già spiegato, precedentemente, come sia importante per i genitori fare da filtro rispetto ai messaggi che possono passare da questo nuovo fenomeno giovanile.

Non è una novità analizzare l’influenza che una serie tv o un particolare fenomeno in voga esercitano sulle persone, soprattutto quelle appartenenti a fasce d’età adolescenziali. Rockstar, modelle, attori, personaggi di film e serie tv cult – negli anni ’60 come anche oggi – hanno un grande potere su chi li segue e li ammira. Quanti di noi non hanno visto, almeno una volta, un adolescente con il taglio di John Lennon? O con l’acconciatura di Noel Gallagher? E quanti non hanno mai visto un bambino chiedere al parrucchiere il taglio del proprio calciatore preferito?

In casi come questi, tuttavia, l’influenza esercitata dalle serie tv – il discorso può essere generale, va oltre “l’effetto Squid Game” – non si limita a concetti puramente estetici, ma arriva a spingere i giovani a comportamenti sbagliati, a volte anche violenti.

Il gioco appartiene alla storia dell’uomo ed è sempre stata una costante nella vita di ogni individuo, fin dai suoi primi anni di vita. Gioco che ha un valore simbolico, si esprime con forme, immagini e significati diversi. Precisiamo che il gioco deve essere presente, perché è una delle vie migliori per crescere ed essere stimolati. L’Articolo 31 della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza sottolinea proprio il diritto al gioco di ogni bambino, come principio di salute psichica dell’individuo futuro. Il gioco, infatti, permette di comprendere meglio la realtà che ci circonda, attraverso simulazione e rappresentazione”.

Nel mettere in atto, però, ciò che si vede in tv, sui social e sulle piattaforme streaming – con cui i giovanissimi hanno ormai maggiore dimestichezza degli adulti – i bambini agiscono istintivamente, senza alcuna programmazione, “al contrario l’habitus dell’adulto lo obbliga a considerare le possibili conseguenze delle sue azioni. Di comune c’è che, sia per il bambino che per l’adulto, è importante associare alla dimensione ludica le proprie emozioni, che consentono di far comprendere una o più parti di noi, in base anche all’intensitià con le quali esse si attivano, agendo sul palcoscenico psichico di ognuno”. 

Influenze, nuove dinamiche in società: ma noi chi siamo?

“Oggi, molto probabilmente, per alcuni aspetti e per alcune dinamiche presenti nella nostra società, non si riesce più a sapere chi siamo. ‘È il fenomeno caratteristico che subentra non appena una situazione archetipica diventa schiacciante. Si può osservarlo, tra le persone che sono prese dal panico, strette in una grande folla mossa da un pensiero o da un sentimento collettivo. L’individuo non si rende conto di essersi dissolto, sebbene abbia perduto la testa proprio come tutti gli altri. La cosa avviene in modo impercettibile. Ci si dissolve dall’interno‘ (Jung). Ciò vuol dire che la tendenza all’omologazione all’altro, alle mode, ai comportamenti universalmente riconosciuti e accettati ci porta a voler imitare la collettività o i fenomeni del momento, allontanandoci dalla nostra vera essenza.

Poi c’è il concetto della competizione

“Il desiderio, il bisogno di riuscire, il concetto di competizione è insito nella natura del gioco. Con riferimento specifico a Squid Game è chiaro come la stessa competizione, così come il ruolo della donna, vadano contro corrente rispetto al radicale cambiamento di costume che ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni. La dimensione di genere e la subalternità sociale che emergono dall’analisi della sfida dicono, chiaramente, che le donne sono destinate a perdere: ciò denota che la stessa dimensione di genere, in realtà, resta affascinata da un ‘gioco’ che rema contro l’affermazione sociale delle donne. Inoltre, si possono decodificare l’assenza di empatia e di solidarietà, per lasciare posto a fattori di condizionamento, sottomissione, violenza, sfruttamento, legati alle disuguaglianze e alle stratificazioni. Costrutti culturali che affermano il primato, oltre che del maschio, della classe sociale più ricca. Vincono i più forti e i più ricchi: la dinamicità insita nell’uomo e nel collettivo viene completamente annullata“.

“In questo, Squid game è lo specchio del modello relazionale sud coreano, ma dovremmo chiederci quanto e perché ci appartiene o, comunque, ci affascina in una qualche misura. Questa pregnanza sociale e l’adesione a certe tematiche rappresentano lo spirito del nostro tempo: una società liquida, dove tutti cercano di restare a galla omologandosi. Scopo principe e più aulico è invece la differenziazione“.

Squid Game e l’età giusta per vederlo

“L’interrogativo riguardo alla ‘liberta’ che si ha oggi nel vedere Squid game anche al di sotto dei 14 anni, o nella fase adolescenziale, porta a fare una semplice ma significativa considerazione. I minori non possiedono le competenze emotive e cognitive per rielaborare ed integrare dentro di sé nel modo giusto, a livello intrapsichico, la complessità di alcune esperienze e incontrano difficoltà anche nel differenziare la realtà virtuale da quella reale. Diverse ricerche hanno dimostrato che l’esposizione smodata a video-game violenti, serie o film crea un deficit di empatia, normalizzando comportamenti aggressivi, vessatori e cruenti. Pertanto, risulta interessante chiamare in causa una delle life skills dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.), dove si parla espressamente delle competenze di vita del saper prendere buone decisioni, competenza che a sua volta chiama in causa l’educazione al pensiero critico“.

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Woman hand sign for stop abusing violence, Human Rights Day concept.

Dallo stupro di guerra all’Afghanistan, le donne e il viaggio infinito verso la parità di genere

È arrivato a mettere piede sulla luna, l’uomo. Ma non è ancora arrivato alla meta di una vera e indiscutibile parità di genere: altrimenti non ci sarebbero, in alcuni Paesi, donne costrette a stare confinate in casa, spose bambine, divieti – anche troppo recenti – di indossare i pantaloni. E ancora non ci sarebbero, ogni anno, lunghi elenchi di vittime di femminicidio, né ci sarebbe bisogno di Giornate mondiali contro la violenza sulle donne.

C’è tanto, tantissimo da fare, affinché si possa veramente parlare di parità di sassi, soprattutto lontano dall’Occidente.

E mentre nell’Afghanistan, tornato nelle mani dei Talebani, le donne scendono in strada e sfilano, in segno di protesta, per poter tornare a scuola; si torna a riflettere sulla condizione della donna oggi, anno domini 2021. E ci si chiede il perché. Perché tante violenze? Cosa scatta nella mente degli uomini? Quante e quali tipologie di violenza subisce la donna?

Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

L’essere umano è dinamico per sua natura, ciò vuol dire che ha un costante bisogno di evolvere e migliorare la propria condizione. Una caratteristica, questa, che riguarda tanto gli uomini, quanto le donne: lo insegna la storia. Il passato è stato segnato da grandi avvenimenti e cambiamenti, da vere e proprie conquiste. Come la parità di diritti, il concetto di dipendenza economica per le donne, il diritto di voto. Storicamente, molti episodi hanno ridisegnato lo status femminile, conferendogli piena dignità civile, alla pari con quella dell’uomo. Eppure…la piaga della violenza sulle donne non è affatto scomparsa. Nè nella sua forma fisica, sessuale, né psicologica”.

 

Ogni giorno la cronaca riporta fatti drammatici, che oltrepassano la normale frequenza di delitti generici. “Molti di questi fatti – sottolinea la psicologa e psicoterapeuta – evidenziano un’importante specificità delle aggressioni, contro rappresentanti del genere femminile. Money Kyrle parla di ‘tradizionale commercio di infelicità tra gli esseri umani’: un assunto che mantiene la sua validità generale anche quando si entra nello specifico delle violenze di genere. Se, da un lato, non è complicato comprendere il rapporto tra uomini e donne, andando oltre certe convinzioni popolari e collettive, dall’altro lato si tratta comunque di un rapporto così viscerale e carico di aspetti poco chiari, che chiama in causa tutta una serie di emozioni, sentimenti, paure, angosce…portando, spesso, all’aggressività“. 

 

“Denigrazioni, umiliazioni, svalutazioni, desideri di controllo e di dominio, di potere e comando, trovano terreno fertile e si nutrono non appena l’eros iniziale ed il legame di fusione – che vivono le persone all’inizio delle loro relazioni – vengono messi in crisi dall’inquietante percezione dell’Alterità, ovvero dell’altro come diverso e separato da sé“.

I discorsi che riguardano la violenza coniugano principalmente due elementi: il linguaggio e l’emozione dell’aggressività.

“Il termine ‘aggressività’ deriva dal latino aggredior e il suo significato, dal punto di vista etimologico, appare molteplice e complesso. Il verbo gradior significa ‘andare’, ‘avanzare’, oltre che ‘attaccare’. La preposizione ‘ad’ indica ‘contro’, ma anche ‘verso’. Il significato del termine, quindi, non è solo ‘aggredire’, ma anche ‘andare verso’, ‘intraprendere’, ‘cercare di ottenere’. Il termine ‘violenza’ invece, deriva dal latino vis (forza): si richiama, quindi, all’uso della forza e viene solitamente associato all’espressione più negativa e distruttiva dell’aggressività. Il concetto di aggressività, però, non coincide necessariamente con la manifestazione di una violenza distruttiva. I comportamenti aggressivi sono solitamente accompagnati da emozioni intense, alcune spiacevoli quali la rabbia, la paura, la frustrazione e la colpa, altre piacevoli di bramosia o di eccitazione. Sappiamo che molti di questi stati mentali si riferiscono a emozioni di base che sono descritte non solo nei mammiferi, ma anche – in particolare la rabbia, la paura e la bramosia sessuale – in altri animali“.

La donna come ‘conquista di territorio

Una delle forme di aggressività più dirette ed esplicite è lo stupro di guerra. Un atto in cui la violazione dell’altro ha il senso di trafiggere e occupare i territori interni del corpo altrui, oltre che i territori geografici esterni. Un ulteriore sfregio al nemico. In questo senso, la donna viene considerata come puro territorio, la vera guerra è contro i nemici maschi“. 

Quindi, c’è la violenza sessuale. Da cosa scaturisce? 

“Dal desiderio di possedere il corpo di una donna, oserei dire ‘la carcassa0: in quanto l’atto viene perpetrato senza entrare in sintonia con la sua mente e la sua anima. In questo caso specifico, gli uomini sono spinti dall’unico scopo di distruggere la donna vittima. Non è un caso se ci sono diversi racconti di donne che riportano il loro ‘dissociarsi mentalmente’, quando sono vittime di violenze fisiche ricorrenti”.

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Non c’è un limite, purtroppo, alle violenze possibili: ci sono, invece, sia le ferite dirette che queste violenze possono comportare, sia quelle meno immediate – forse anche meno evidenti – che nascono, giorno dopo giorno, mentre la violenza si compie nella sua lenta ma subdola aggressività, dilazionata in un lungo arco temporale.

 

Le denigrazioni possono essere sferzanti, oppure progressive – continua l’esperta Chiara Gioia – È importante sottolineare, infatti, che la violenza si differenzia anche relativamente a manifestazioni di episodi occasionali o ricorrenti. Può trattarsi di una violenza causata da uno scompenso psichico che destruttura momentaneamente l’organizzazione mentale dell’uomo, come un accesso d’ira di varia origine, o una violenza di più ampia radice: come legata ad assunti culturali o presupposti narcisistici ‘sacri’, che l’uomo ritiene fuori discussione. Secondo questi principi – generalmente imposti da una società in cui uomini e donne non hanno pari diritti – l’uomo si sente legittimato ad una condotta aggressiva. Rientrano in questo ambito tutte quelle forme di violenza fondate su presupposti ideologici e/o religiosi, che escludono qualsiasi dubbio e che eliminano le ragioni altrui rispetto a quelle del maschio”.

 

Alla radice della violenza

“Il ruolo dell’analisi è riconoscere la radice profonda delle varie violenze maschili. Ci sono dei casi, quelli in cui la violenza è quotidiana, in cui l’uccisore (nei casi che hanno un epilogo estremo) mostra un livello regressivo: l’uomo, quindi, vive in una dimensione esclusiva di coppia e non può tollerare la fine di un rapporto. La regressione, tuttavia, è ancora più marcata quando riguarda una dipendenza e un bisogno di controllare la donna, intesa come oggetto. Questi due contesti creano spesso forme di violenza di cui il soggetto violento non coglie l’aspetto infantile: siamo cioè in presenza di uno stadio psichico bloccato, mai evoluto, che viene comunicato, purtroppo, con un atteggiamento violento. L’uomo tenderà sempre a esprimere la sua supremazia fisica, poiché questo serve a rassicurarlo circa la sua superiorità rispetto all’oggetto dal quale, invece, è assolutamente dipendente.

 

“Altro discorso, invece – conclude Chiara Gioia – è quello riguardante la trasmissione transgenerazionale dei traumi e di episodi di violenza. Come le identificazioni con l’aggressore, in questo senso spesso l’uomo fa soffrire per non soffrire egli stesso. Ancora il vincolo sadomasochistico, come via di appagamento di pulsioni inaccettabili e garanzia di non abbandono. Solo il riconoscimento consapevole della violenza può aiutare a compiere un primo passo verso la libertà. Spesso la violenza può nascondersi anche dietro allusioni, avvertimenti particolari, insinuazioni ambigue, toni artefatti. Espressioni che possono fare da corollario alla nascita del comportamento violento in un rapporto, in cui l’uomo complica i codici e il linguaggio non verbale, trascinando la donna in una dimensione vecchia come il mondo, che la civiltà, purtroppo, non è riuscita fino ad oggi ad eliminare e, molto spesso, neanche a limitare”.

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Bullismo e Cyberbullismo, il silenzio di un doppio disagio: vittime o carnefici

Bullismo e Cyberbullismo, a scuola, per strada o sul web: luoghi e motivi diversi, ma stesse radici e medesima violenza.

Il Bullismo è un fenomeno complesso di cui si parla spesso, a volte quasi abusando del termine, utilizzato in modo improprio. Scopriamo cause e conseguenze della violenza tipica del bullismo.

“Dal momento che la guerra ha inizio nelle teste degli uomini, è nella mente degli esseri umani che bisogna iniziare a costruire la pace”. Dal programma nazionale La pace si fa a scuola, 2007.

Prepotenze, prevaricazioni e atteggiamenti indolenti all’interno della scuola e non, hanno una storia abbastanza lunga, basti pensare ad Edmondo De Amicis, che assegna ad Enrico e al suo diario la descrizione di un alunno negligente. La cronaca, oramai da qualche anno, ci riporta fatti allarmanti che hanno come protagonisti adolescenti e giovani – tra cui anche bambini vittime di angherie da parte dei propri coetanei.

“Proprio l’attenzione da parte dei media, come spesso accade, ha contribuito da una parte a diffondere la consapevolezza della problematica, dall’altra anche a creare confusione e uso di intercambiabilità di concetti, che andrebbero ben chiariti. Rischio maggiore è che il termine ‘bullismo’ si presti a identificare situazioni legate ad un’ampia varietà di aggressioni, vanificando così la possibilità di cercare di riferirlo esplicitamente a una problematica tipicamente infantile-adolescenziale”, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

Bullismo e significati

“Il medico svedese P.P. Heinemann e lo Psicologo norvegese D. Olwes sono stati i primi che – negli anni ’70 – hanno posto attenzione ad un insieme di reazioni pubbliche legate al suicidio di tre giovani adolescenti, a causa delle aggressioni inflitte loro da coetanei e, pertanto, utilizzarono il termine bullyng in riferimento a contesti giovanili, mutuandolo dal termine ‘mobbing’, riferito come sappiamo a contesti lavorativi”.

Il bullismo non fa riferimento solo a comportamenti di natura aggressiva, bensì ad un atteggiamento che tende a reiterarsi nel tempo.

Successivamente è stato definito da Sharp e Smith come ‘un’azione che mira deliberatamente a fare del male o a danneggiare; spesso è persistente, talvolta dura per settimane, mesi e persino anni ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime’ “.

Bullismo e cause

Il lupo e l’agnello, il carnefice e la vittima: un disequilibrio in un rapporto è l’inizio di tutto.

“La tipica situazione di bullismo è data dal necessario instaurarsi di una relazione patologica, con ruoli precisi di sbilanciamento dei poteri tra le due parti: un prevaricatore e una vittima. Rapporto notevolmente differente, tuttavia, da un’ordinaria relazione conflittuale tra coetanei ed è bene specificarlo, proprio a fronte delle tante volte in cui si usa impropriamente il termine bullismo. Altro elemento determinante è l’aspetto temporale, che tende a cronicizzare la situazione“.

Per riconoscere il fenomeno del bullismo è importante individuare alcune peculiarità. Le spiega Chiara Gioia:

“-Intenzionalità: il bullo intenzionalmente agisce con comportamenti fisici, verbali o psicologici finalizzati alla sofferenza della vittima;

-L’asimmetria, cioè il disequilibrio di forza tra i soggetti del rapporto;

L’intensità e la durata, la persecuzione perdura nel tempo, creando sempre minor stima nella vittima;

La persistenza, riferita alla reiterazione nel tempo delle forme di prepotenza e prevaricazione;

-Vulnerabilità della vittima: la vittima si presenta come un soggetto particolarmente sensibile che mostra difficoltà nel difendersi

-Mancanza di sostegno, la vittima terrorizzata anche dalla prospettiva di rappresaglie e vendette, incapace di riferire i sorprusi e chiedere aiuto”.

La manifestazione del comportamento di un bullo può essere diversa: “tramite attacchi diretti alla vittima, come ad esempio offese verbali e gesti offensivi, oppure può avvenire nella forma del bullismo psicologico, quindi indiretto. Cioè teso a favorire l’isolamento sociale e l’esclusione dal gruppo della vittima. Un chiaro esempio potrebbe essere la diffusione di false notizie diffamanti riguardanti la vittima”.

bullismo

“È noto, poi, che il bullismo tende ad arricchirsi di modalità, espressioni ed atteggiamenti in base all’età dei soggetti interessati. Ed è anche condizionato dal contesto e dall’eventuale esercizio del bullismo ‘di gruppo’. Nel caso del bullismo diretto si riesce più facilmente a riconoscerlo, al contrario quello indiretto – quindi psicologico – è meno visibile a terze persone ed è una forma di bullismo privilegiata dal sesso femminile”. 

Cyberbullismo

Il fenomeno del bullismo ha trovato il modo di manifestarsi anche sul web: in una realtà virtuale che ha, purtroppo, offerto al bullismo la possibilità di ampliare le sue forme.

La psicologa e psicoterapeuta aquilana, a tal proposito, spiega: “Con il termine di cyberbullismo si fa riferimento (Besley, studioso canadese) ‘all’uso di nuove tecnologie di comunicazione per attuare comportamenti aggressivi, deliberati e ripetuti, da parte di un individuo o di un gruppo di individui, con l’intento di danneggiare gli altri’. Analogamente al bullismo vi è l’intenzionalità di arrecare sofferenza e disagiola differenza sosanziale è che il cyberbullismo utilizza i dispositivi di comunicazione più innovativi per danneggiare. Come ad esempio blog, posta elettronica, siti personali, social network, messaggeria istantanea“.

Il bullismo, tuttavia, nasce da un disagio pregresso e persistente, per questo ritengo opportuno porre l’attenzione sulla risoluzione sana dei conflitti e non sull’aggressività quale metodo per sconfiggerlo. Bisogna, quindi, cercare di capire come prendersi cura di questo disagio, senza pensare ad annientarlo. Credo, poi, che famiglia, scuola, istituzioni e comunità in generale siano orientate verso un obiettivo comune: quello di un’educazione che si pone come principale scopo far assumere un ruolo importante alla comunicazione tra il nostro mondo interiore e quello che ci circonda. Il bullismo e il cyberbullismo sono conflitti che intervengono sia a livello personale che intrapsichico. Per fornire una risposta a questi fenomeni è importante, quindi, partire dall’analisi del concetto di conflitto”.

Bullismo, il conflitto

Ognuno di noi è in relazione con qualcun altro, sempre. In primis con sé stessi e, sicuramente, già questo genera molti conflitti, ma è l’esistenza stessa che è relazione, dinamicità, metamorfosi e – per questo – il conflitto è sempre legato ad una determinata relazione con una parte di sé. Con la cultura, i valori, la politica. Il conflitto è parte integrante di noi. Nel momento stesso in cui ci troviamo davanti ad un conflitto, a livello sociale, non è possibile pensare di poterlo risolvere senza considerarne, prima, la dimensione interiore“. 

Il conflitto, quindi, va gestito in maniera sana e costruttiva, perché  “il disagio va accolto e non deve essere letto sviluppando la sensazione di ‘esseri inferiori o deboli’. Il disagio va interpretato, invece, come un ulteriore elemento che abbiamo a disposizione per poter conoscere una nostra parte intrapsichica: cioè un personaggio del nostro palcoscenico psichico. Questo ci porta a relazionarci con la sofferenza, che oggi più che mai si tende a soffocare e a non ascoltare. La più grande difficoltà che si incontra è la paura di stare male, ma è bene comprendere che si può gestire positivamente un disagio nel momento stesso in cui si decide di prendersi cura di esso”. 

“Paura e mancanza di empatia, le due emozioni protagoniste del doppio fenomeno bullismo e cyberbullsimo, non devono ‘sparire’, ma devono essere accolte in uno spazio interiore. Bullo e vittima tendono ad essere quasi due facce della stessa medaglia: il bullo sicuramente non è riuscito a guardare in faccia il suo disagio, ad affrontare le sue sofferenze e le sue fragilità, e ciò non va assolutamente confuso con una giustificazione. Il bullo, ancora, non è riuscito a prendersi cura di sé e non ha avuto e/o incontrato qualcuno che si prendesse cura di lui. Poi c’è la vittima, che si trova nella stessa condizione psichica del bullo: solo che ognuno esprime questo stato psicologico in modi e ruoli differenti. Entrambi hanno una ferita intrapsichica, una disarmonia: chi la esprime con la rabbia, chi con la paura di non raccontare ciò che subisce a scuola o in altro luogo, ma entrambi sono attori dello stesso palcoscenico psichico. Hanno in comune una ribellione che vuole essere riconosciuta con una propria identità”.

Le conclusioni

“C’è da dire che un limite della società di oggi consiste nel reprimere le emozioni. Quando un bambino si arrabbia o si imbarazza, o ancora quando si allarma, l’adulto – anziché dargli modo di esprimere ciò che prova – tende o a sdrammatizzare le sue paure o ad arrabbiarsi più del piccolo, non consentendogli così la naturale espressione del suo vissuto emozionale. Con un simile comportamento si rischiano due reazioni: introversione o estroversione, ma senza una via di mezzo. Senza il giusto equilibrio tra le due parti. I bambini, così come gli adolescenti e gli adulti, hanno bisogno di trovare valorizzazione e apprezzamento delle loro qualità, attraverso la manifestazione delle proprie emozioni. È fondamentale, quindi, educare alle emozioni“.

Come farlo?

“Un modo validissimo per educare alle emozioni – ad esempio nelle scuole – è lo strumento del circle time: un metodo di lavoro che facilita e aumenta la vicinanza emotiva. Metodo, appunto, efficace per stimolare bambini e ragazzi ad acquisire conoscenza e consapevolezza delle proprie e altrui emozioni. Anche far uso di circle time dalla scuola materna allena i bambini a mettersi in gioco, a sapersi relazionare con gli altri, dando spazio alle proprie emozioni anche nel confronto con un gruppo. Il gruppo, in questo caso, assume un ruolo e valore diverso, cioè di contenitore emozionale utile ed efficace per la conoscenza del sé e degli altri. Si diventa bulli quando l’aggressività si configura come unica modalità di relazione e, parallelamente, si è vittima quando la paura prende il sopravvento sulla propria persona“. 

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Scuola, inclusione e Bes, i Bisogni Educativi Speciali: nessuno deve essere escluso

La scuola è ufficialmente ripartita. Green pass, distanziamento, mascherine…ma il Covid19 non cancella le esigenze di tutti quegli studenti con Bisogni Educativi Speciali, i cosiddetti Bes. Nessuno deve essere lasciato indietro. Nessuno deve essere lasciato solo.

Ci sono studenti che, nel loro percorso scolastico, manifestano il bisogno di attenzioni speciali. Se ne argomenta spesso e, altrettanto spesso, se ne scrive. A volte, però, si fa confusione, anche a causa di una terminologia frequentemente utilizzata in modo poco accurato e preciso. Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta aquilana, Chiara Gioia. Bisogno, deficit, svantaggio, sono tutti termini che oggi sono ampiamente usati nella nostra società, a volte rendendoli interscambiabili erroneamente e tendenti a peculiarizzare alcune situazioni nell’ambito scolastico“.

Bes, scopriamo i Bisogni Educativi Speciali

Attingendo dal latino, la parola “ bisogno” vuol dire occuparsi, prendersi cura.

“Il bisogno indica una mancanza, una necessità. Ed è proprio la Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 a consentire l’uso dei ‘Bisogni Educativi Speciali’ (BES). Oggi, nelle nostre scuole vi è la presenza di alunni che presentano una richiesta di attenzione speciale per molte ragioni: quali possono essere, ad esempio, lo svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana, perché appartenenti a culture diverse.

“La sigla BES, allora, vuole rispondere ad antiche e giuste esigenze di trattamento personalizzato di tutti gli alunni, i quali, nel loro percorso di crescita e formazione – con continuità o per determinati periodi – possono manifestare Bisogni Educativi Speciali o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici e sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e individualizzata risposta.

L’utilizzo dell’acronimo BES indica una vasta area di alunni per i quali non è possibile fare diagnosi di Disturbo specifico di apprendimento, bensì è il disagio stesso che tende a compromettere lo stesso.

Il loro bisogno di sviluppare competenze di autonomia “è complicato dal fatto che possono sussistere deficit motori, cognitivi, oppure difficoltà familiari nel vivere positivamente l’autonomia e la propria crescita personale. Ciò li porta ad avere necessità di un supporto educativo personalizzato“.

I BES comprendono tre grandi sottocategorie, quali: disturbi evolutivi specifici, disabilità e svantaggio socio-economico, linguistico e culturale.

Come intervenire?

Ènecessario “tessere una rete”, in cui scuola e famiglia – agenzie formative per eccellenza – devono poter e saper dialogare, ascoltare, accogliere: per entrare in sinergia tra loro e poter cooperare. Nello specifico, vi è un team specialistico multi-professionaleche ha il ruolo di effettuare una valutazione, formulare diagnosi e definire un progetto complessivo di intervento che viene comunicato alle famiglie. Stabilendo cosi un contatto con il personale scolastico, al fine di integrare programmi educativi e interventi specifici”, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta.

Gli alunni con Bisogni educativi speciali hanno il diritto di esser integrati nel sistema pedagogico.

Bes, il diritto dell’inclusione

Oggi la scuola, vicina alle attuali esigenze, riconosce e muove verso il concetto di inclusione, “cioè il sentirsi parte di un gruppo-classe, che riconosce, rispetta e stima. Inoltre, la sigla BES chiama anche in causa un altro concetto: quello di “speciale normalità”. Vale a dire il bisogno che questi alunni hanno di essere e sentirsi come gli altri, ovvero che l’essere speciale venga inteso come ‘accoglimento di specifici bisogni’ e non come carattere di esclusione, bensi di esclusività. Come lo è d’altronde ogni singolo individuo, con la propria identità ed il proprio modo di essere”.

Una scuola si può definire inclusiva quando insegna ad ogni singolo alunno a riconoscere, accogliere e valorizzare l’alterità: come fonte inesauribile di ricchezza per la crescita di ognuno.

“Gli articoli 2, 3 e 34 della nostra Costituzione fanno ben comprendere come l’ambiente scolastico diventa inclusivo quando tende a rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione alla vita sociale degli alunni, quindi anche all’esperienza didattico-educativa delle persone”.

Bes, ci sono anche le famiglie

Attenzione va data anche alle famiglie.

“La disabilità o un rilevante ‘bisogno speciale’ di un componente della famiglia comporta sempre una “perturbazione”, non per forza persistente e patologica, all’interno del sistema familiare. La letteratura scientifica ci indica alcune variabili che incidono in senso negativo, quale ad esempio la gravità e la tipologia della patologia o anche la ‘desiderabilità sociale’. Assumere un adeguato atteggiamento che sia socialmente accettabile, in questo caso, costituisce una vera e propria reazione di difesa che varia molto da famiglia a famiglia. Coesione e flessibilità, rafforzamento di cambiamenti strutturali nel sistema familiare per affrontare il problema, sono elementi che incidono positivamente sulla capacità del nucleo familiare di gestire stress e accettare adeguati supporti, quale un sostegno psicologico e/o un percorso di psicoterapia“.

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Eutanasia, tra diritti e dolori: quali ragioni dietro a una scelta

Eutanasia, perché scegliere di morire è un diritto. “Liberi fino alla fine” è il messaggio che accompagna la raccolta firme per chiedere che l’Eutanasia venga legalizzata in Italia, attraverso un Referendum. Sì, perché la morte indotta in Italia è considerata un reato.

Il tema Eutanasia parte dall’idea di morte, per questo è complesso ed estremamente delicato. Parlarne e scriverne è quanto di più difficile si possa fare, ciò non ci esula comunque dal farlo. Perché si sta combattendo una battaglia che si trascina da tanto tempo e che, finora, non ha mai cambiato nulla nel nostro Paese.

Quando si parla di Eutanasia spesso si sottovaluta o si riflette poco su quale sia lo stato d’animo della persona la assiste un proprio caro gravemente malato. Da giorni, mesi o anni.

La morte, le sue molteplici interpretazioni, la concezione della vita che finisce, la ferita e il suo significato, anche psicologico e, infine, perché si sceglie l’Eutanasia: al termine di un percorso lungo, travagliato, pensato e, soprattutto, personale.

Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

L’Eutanasia e la ‘buona morte’

“Parlare di eutanasia ci mette di fronte ad un tema eticamente sensibile. Etimologicamente è una parola di tradizione dotta, arrivata a noi attraverso un’attività di recupero. È una parola greca che appartiene al patrimonio antico, il cui significato è mutato nel tempo. Letteralmente significa ‘buona morte’, concetto apparentemente semplice, ma che – in realtà – è variamente interpretabile. Cosa debba intendersi per buona morte, infatti, dipende dai tempi, dai luoghi e dalle culture. Storicamente, poteva essere intesa una buona morte la morte eroica in battaglia o quella nelle guerre ‘sante’. Per qualcuno, purtroppo, una buona morte può essere addirittura il suicidio, ma sappiamo che così non è”, ci spiega Chiara Gioia. 

 

“Una ‘buona morte’ – continua – può essere intesa sotto vari punti di vista, in particolare: fisico, etico e spirituale. In senso fisico, ad esempio, la buona morte può riferirsi ad una circostanza naturate o indotta, volontaria o involontaria. In senso etico può indicare la morte cui si va incontro come ‘cosa’ giusta, con accettazione, quasi come fosse il perfetto completamento della vita. In senso spirituale, infine, la morte è un trapasso necessario, non fine ma cambiamento”.

E psicologicamente? 

“In questo caso, nell’ambito psicologico, la morte assume un significato altro rispetto a quelli già citati. Come simbolo la morte è ciò che distrugge l’esistenza. Quindi fa intendere ciò che viene meno, all’improvviso, che svanisce per sempre. È un concetto, inoltre, che introduce a mondi sconosciuti e dalle sfumature ambivalenti: si accosta a riti di passaggio. La morte è un mistero che viene inevitabilmente vissuto con angoscia, associato ad immagini di paura, senso di vuoto e solitudine, disperazione. Soprattutto, la morte porta ad interfacciassi con la dimensione della malattia e questo ci ferisce”.

La malattia e la ‘ferita’: non solo fisica

La malattia è un disturbo. Un male che riguarda gli individui e la società. Se, da un lato, è letta come mancanza, squilibrio, alterazione, dall’altro lato è un indizio, terrificante, della nostra mortalità. Ci aiuta a prendere coscienza della stessa, di una morte inevitabile. Del resto, la malattia è una ‘crepa’ che si crea nel nostro corpo, ma ancor prima nella psiche. Sì, perché la lacerazione causata dalla presa di coscienza, appunto, ha un fortissimo impatto emotivo. Le ferite, cioè, ci fanno sentire vulnerabili e spesso ci condizionano“.

 

“Vero è – continua Chiara Gioia – che nel processo psichico le ferite guariscono, ma affinché ciò accada è necessario prendersi cura di esse, senza evitarle o ignorarle. Ogni ferita ha bisogno del suo processo: va riconosciuta, valutata, pulita e ricucita, per quanto possibile”.

Rispondere al perché si sceglie l’eutanasia non è affatto facile. Si può, però, provare a individuare i motivi che conducono all’eutanasia. Motivi che possono essere infiniti.

“Ci sono, alla base della scelta, possibili motivazioni personali, culturali, legate al dolore o, anche, alla perdita di speranza. Ciò che è importante, tuttavia, è prestare attenzione a chi vive queste situazioni drammatiche, di grande sofferenza, spesso silenziosa. Per tanto tempo queste persone stanno accanto a una persona cara malata. Viene spontaneo chiedersi se, allora, la morte diviene oggetto della domanda oppure il desiderio di non volerla pensare, considerare. Certo è che nel momento in cui muore una persona a noi cara, quella morte diventa il riflesso della nostra morte. Ecco quindi che dietro la sofferenza del malato c’è la sofferenza di chi lo cura”.

“Capire ed elaborare, da parte di chi siede al fianco della persona malata, giorno dopo giorno, la sofferenza del proprio caro, vuol dire impedire che la stessa sofferenza prenda strade che ci sfuggono di mano. Tantissime sono le famiglie in cui c’è una persona che si fa carico, più di altre, della cura di un caro malato. Trattasi del caregiver primario: un compito di responsabilità, che implica un investimento di energie spesso per anni e anni e che, per questo, necessita di attenzioni. Anche il caregiver deve essere assistito, protetto da rischi esterni ed educato a gestire la situazione delicata, anche a livello emotivo, senza esserne travolto dal punto di vista psicofisico e sociorelazionale. Il ‘fare’ del caregiver conclude la psicologa e psicoterapeuta Chiara Gioia è sicuramente mosso e portato avanti nel tempo con amore e dedizione, ciò, però, non lo solleva dall’essere comunque un compito gravoso. Con una ricaduta a livello psichico importante, soprattutto quando si maschera la propria preoccupazione di ciò che sarà un domani. Vanno considerati, poi, i livelli di stress, ansia e depressione a cui il Caregiver è soggetto. Per tutte queste ragioni è indispensabile accogliere ogni possibile strategia per evitare di farsi carico in solitudine di situazioni difficili, col rischio di esserne vittime e di provocare conseguenze ancor più pesanti di quelle già vissute”.

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Genitori, figli e social: bambini sul web fin dal primo test di gravidanza

Finiscono sui social ben prima di nascere. Dal test di gravidanza, alla scoperta del sesso del bebè. Tutto viene documentato e condiviso con post e storie: le prime ecografie, i primi calci alla pancia, il primissimo vagito. Significa anche questo, sempre più spesso, essere neonati e genitori oggi. Un fenomeno definito “sharenting”. Ma perché c’è tutto questo desiderio di raccontare la maternità, diffondendone su Instagram ogni attimo?

Forse perché viviamo nell’epoca dell’iperconnessione, con il telefono sempre in mano e l’indice che scorre continuamente sulle bacheche social. Un’epoca che ha portato, quasi naturalmente, a ridefinire lo stesso ruolo di genitore, attraverso un confronto continuo con genitori conosciuti e non, sulle piattaforme social.

Si tratta di genitori e figli nell’era digitale e di tutti quei condizionamenti che arrivano dal mondo virtuale.

Genitori e figli, l’influenza dei social

“Avere un figlio comporta l’assunzione delle responsabilità del ruolo genitoriale: una funzione che subisce, positivamente e negativamente, forti condizionamenti da tutto ciò che il mondo virtuale offre. Oggi viene chiamato ‘sharenting’: espressione di derivazione anglosassone, che indica la condivisione smodata e continuativa, da parte dei genitori, di foto e video dei propri figli“, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

Sui social passa, quindi, la puntuale narrazione di tutte le principali attività dei propri piccoli. “Storie, post, immagini quotidiane, che raccontano per filo e per segno ogni dettaglio delle giornate dei bambini, dopo aver narrato tutte le fasi principali della gravidanza. Facebook, Instagram, in misura minore anche Twitter… Il fenomeno dello Sharenting ormai è così diffuso da spingere diversi studiosi ad un’osservazione più attenta. Se fino a qualche anno fa si aspettava con ansia il famoso ‘debutto nella società’ – tanto atteso con il compimento del 18esimo anno d’età – oggi credo sia possibile parlare di ‘debutto sul web’: che non è indicato da un tempo, ma che avviene ancor prima della nascita di un bambino e che vede attribuirgli un’identità virtuale, senza che gli stessi bambini possano esserne consapevoli”.

L’identità dei bambini e i rischi della sovraesposizione social da parte dei genitori

“In ambito psicologico – continua Chiara Gioia – è noto quanto il processo dell’identità sia una fase delicata della vita, poiché porta a definire il modo di essere di ognuno. Anche per questo è un momento da attenzionare in misura particolare come fase di vita dei propri figli. È indice di passaggio e cambiamento, sotto ogni punto di vista, psico-fisico e socio relazionale. Oggi, però, con la capillarità del digitale è evidente come non sia mai esistita una generazione con un’infanzia tanto sovraesposta come quella attuale: di conseguenza il processo di formazione dell’identità va incontro a numerosi condizionamenti esterni e ‘appunto virtuali’. Se lo sharenting va letto come una modalità comunicativa di stati d’animo ed emozioni – da parte di chi pubblica materiale – ovviamente tale processo genera anche degli effetti consequenziali. Questa continua condivisione social è una pratica controversa, perché porta con sé molte conseguenze derivanti dalla sovraesposizione del minore. Innanzitutto ripercussioni sulla vita emotiva del bambino. Inoltre, si rende sempre più labile il concetto di privacy. Sono, poi, moltissimi i rischi nei quali si incorre sul web, legati appunto alla tutela del minore: poiché chiunque può utilizzare quelle foto a suo piacimento”.

“Bisognerebbe sempre tenere presente che quando i genitori condividono informazioni e immagini dei propri figli online, lo fanno senza il consenso dei figli stessi” . 

Uno studio pubblicato nel 2019, di Gaëlle Ouvrein “evidenzia come i genitori condizionino l’identità o il concetto di sé dei figli, attraverso la pubblicazione dei contenuti che li riguardano. Gran parte degli adolescenti di oggi, infatti, ambisce alla notorietà più di ogni altra cosa. Sempre più giovanissimi desiderano crearsi un’identità virtuale nota, avere migliaia di follower sui propri profili Instagram, ricevere feedback ad ogni singola pubblicazione e così via. Questo perché hanno impressa l’immagine psichica della capacità che passa, attraverso i media, di trasmettere la rappresentazione social che si sceglie per sé stessi. Nutrono la speranza di avere un’attenzione virtuale misurata sul numero di visualizzazioni, Mi piace o commenti. Il rischio, però, da un punto di vista psicologico, è quello di arrivare alla creazione di modelli estremamente diversi dal concetto (ancora attuale?) di impegnarsi nello studio o in campi specifici, per intraprendere ognuno la propria strada lavorativa e di vita”.

 

“Oggi i bambini pensano di poter raggiungere la fama grazie ai social e ad una pubblicazione costante della propria vita privata su Facebook e Instagram”.

“I giovanissimi sono psicologicamente attratti da queste prospettive che proiettano intorno all’uso dei social e credono che si possa raggiungere una sorta di business marketing, mediante la ‘giusta’ presenza su queste piattaforme. Ma che sostanza c’è dietro a tutta questa esigenza di notorietà? Si rischia concretamente che tutto il resto – dallo studio, ai rapporti interpersonali – passi in secondo piano: per dare priorità alle necessità e alle relazioni social”

“Da parte dei genitori – continua la psicologa e psicoterapeuta aquilana – si tratta di ‘usi’ dell’infanzia che, pur senza essere demonizzati e colpevolizzati, necessitano di essere maggiormente attenzionati. Riflessioni genitoriali che è necessario mettano in luce i rischi, sul fatto che a finire potenzialmente nelle mani sbagliate potrebbero essere non soltanto le immagini inserite sui social network, senza restrizioni – e quindi visibili a qualsiasi utente – ma anche quelle diffuse nei gruppi privati o ancora quelle pubblicate impostando con cura i parametri relativi alla privacy del proprio profilo. Una delle principali insidie, purtroppo anche molto frequenti, è legata al furto dell’identità online, al furto delle immagini, alla creazione di una reputazione digitale, alla geolocalizzazione che consente di reperire informazioni sugli ambienti frequentati dai minori. Altro pericolo è il ‘kidnapping’, termine utilizzato per indicare il comportamento di quei soggetti che, lavorando su foto di minori trovate sui social, li rappresentano come se fossero i propri figli. Altra fattispecie criminosa – facilitata dallo Sharenting e punita dal codice penale – è il ‘child-grooming’, termine che indica l’adescamento di soggetti minorenni da parte di persone di età maggiore”.

Genitori social e l’idea del marketing

“Lo sharenting porta a chiedersi dove si pone un limite tra il semplice desiderio di condividere un momento, di narrare sequenze di vita e dove, invece, si sconfina in un prodotto di marketing. Molti bimbi di oggi sono rappresentanti della cosiddetta ‘generation tagged’: la prima generazione a dover vivere, involontariamente, una continua documentazione della propria esistenza sui social media. Vari studi americani parlano di un’alta percentuale di genitori che fanno uso dei social media per confrontarsi sui temi della genitorialità e per condividere, con amici e parenti, contenuti e ricordi relativi ai propri bambini. In quest’ottica il fenomeno Sharenting rappresenterebbe anche un modo per ridurre le proprie preoccupazioni sul ruolo di genitori. Gli studi più recenti hanno indagato, inoltre, sul ruolo della madre, individuando una maggiore vulnerabilità cui sarebbero esposte le neo-mamme.

Nell’analisi sui cambiamenti che, in modo particolare negli ultimi anni, hanno interessato la ‘spettacolarizzazione’ condivisa della maternità e i primi anni di vita dei bambini, si deve ovviamente considerare il mutato contesto storico rispetto al passato.

Un contesto in cui la stessa società è profondamente cambiata. “Si riscontra – conclude Chiara Gioia – una cultura del narcisismo, recentemente tornata in auge. Ma di narcisismo esiste una forma sana, cioè l’amore per sé stessi, e una forma che tende a sconfinare nell’eccesso, portando il soggetto a sentire un costante bisogno di affermazione e di apprezzamento. Ciò potrebbe condurlo a concentrarsi così tanto su sé stesso, rischiando di perdere di vista l’altro e percependolo soltanto in funzione dell’ammirazione che riesce a trasmettergli. E proprio alla base di questa nuova cultura del narcisismo ci sarebbe la celebrazione del proprio Ego, attraverso l’uso delle tecnologie digitali.

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