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Bullismo e Cyberbullismo, il silenzio di un doppio disagio: vittime o carnefici

Bullismo e Cyberbullismo, a scuola, per strada o sul web: luoghi e motivi diversi, ma stesse radici e medesima violenza.

Il Bullismo è un fenomeno complesso di cui si parla spesso, a volte quasi abusando del termine, utilizzato in modo improprio. Scopriamo cause e conseguenze della violenza tipica del bullismo.

“Dal momento che la guerra ha inizio nelle teste degli uomini, è nella mente degli esseri umani che bisogna iniziare a costruire la pace”. Dal programma nazionale La pace si fa a scuola, 2007.

Prepotenze, prevaricazioni e atteggiamenti indolenti all’interno della scuola e non, hanno una storia abbastanza lunga, basti pensare ad Edmondo De Amicis, che assegna ad Enrico e al suo diario la descrizione di un alunno negligente. La cronaca, oramai da qualche anno, ci riporta fatti allarmanti che hanno come protagonisti adolescenti e giovani – tra cui anche bambini vittime di angherie da parte dei propri coetanei.

“Proprio l’attenzione da parte dei media, come spesso accade, ha contribuito da una parte a diffondere la consapevolezza della problematica, dall’altra anche a creare confusione e uso di intercambiabilità di concetti, che andrebbero ben chiariti. Rischio maggiore è che il termine ‘bullismo’ si presti a identificare situazioni legate ad un’ampia varietà di aggressioni, vanificando così la possibilità di cercare di riferirlo esplicitamente a una problematica tipicamente infantile-adolescenziale”, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

Bullismo e significati

“Il medico svedese P.P. Heinemann e lo Psicologo norvegese D. Olwes sono stati i primi che – negli anni ’70 – hanno posto attenzione ad un insieme di reazioni pubbliche legate al suicidio di tre giovani adolescenti, a causa delle aggressioni inflitte loro da coetanei e, pertanto, utilizzarono il termine bullyng in riferimento a contesti giovanili, mutuandolo dal termine ‘mobbing’, riferito come sappiamo a contesti lavorativi”.

Il bullismo non fa riferimento solo a comportamenti di natura aggressiva, bensì ad un atteggiamento che tende a reiterarsi nel tempo.

Successivamente è stato definito da Sharp e Smith come ‘un’azione che mira deliberatamente a fare del male o a danneggiare; spesso è persistente, talvolta dura per settimane, mesi e persino anni ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime’ “.

Bullismo e cause

Il lupo e l’agnello, il carnefice e la vittima: un disequilibrio in un rapporto è l’inizio di tutto.

“La tipica situazione di bullismo è data dal necessario instaurarsi di una relazione patologica, con ruoli precisi di sbilanciamento dei poteri tra le due parti: un prevaricatore e una vittima. Rapporto notevolmente differente, tuttavia, da un’ordinaria relazione conflittuale tra coetanei ed è bene specificarlo, proprio a fronte delle tante volte in cui si usa impropriamente il termine bullismo. Altro elemento determinante è l’aspetto temporale, che tende a cronicizzare la situazione“.

Per riconoscere il fenomeno del bullismo è importante individuare alcune peculiarità. Le spiega Chiara Gioia:

“-Intenzionalità: il bullo intenzionalmente agisce con comportamenti fisici, verbali o psicologici finalizzati alla sofferenza della vittima;

-L’asimmetria, cioè il disequilibrio di forza tra i soggetti del rapporto;

L’intensità e la durata, la persecuzione perdura nel tempo, creando sempre minor stima nella vittima;

La persistenza, riferita alla reiterazione nel tempo delle forme di prepotenza e prevaricazione;

-Vulnerabilità della vittima: la vittima si presenta come un soggetto particolarmente sensibile che mostra difficoltà nel difendersi

-Mancanza di sostegno, la vittima terrorizzata anche dalla prospettiva di rappresaglie e vendette, incapace di riferire i sorprusi e chiedere aiuto”.

La manifestazione del comportamento di un bullo può essere diversa: “tramite attacchi diretti alla vittima, come ad esempio offese verbali e gesti offensivi, oppure può avvenire nella forma del bullismo psicologico, quindi indiretto. Cioè teso a favorire l’isolamento sociale e l’esclusione dal gruppo della vittima. Un chiaro esempio potrebbe essere la diffusione di false notizie diffamanti riguardanti la vittima”.

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“È noto, poi, che il bullismo tende ad arricchirsi di modalità, espressioni ed atteggiamenti in base all’età dei soggetti interessati. Ed è anche condizionato dal contesto e dall’eventuale esercizio del bullismo ‘di gruppo’. Nel caso del bullismo diretto si riesce più facilmente a riconoscerlo, al contrario quello indiretto – quindi psicologico – è meno visibile a terze persone ed è una forma di bullismo privilegiata dal sesso femminile”. 

Cyberbullismo

Il fenomeno del bullismo ha trovato il modo di manifestarsi anche sul web: in una realtà virtuale che ha, purtroppo, offerto al bullismo la possibilità di ampliare le sue forme.

La psicologa e psicoterapeuta aquilana, a tal proposito, spiega: “Con il termine di cyberbullismo si fa riferimento (Besley, studioso canadese) ‘all’uso di nuove tecnologie di comunicazione per attuare comportamenti aggressivi, deliberati e ripetuti, da parte di un individuo o di un gruppo di individui, con l’intento di danneggiare gli altri’. Analogamente al bullismo vi è l’intenzionalità di arrecare sofferenza e disagiola differenza sosanziale è che il cyberbullismo utilizza i dispositivi di comunicazione più innovativi per danneggiare. Come ad esempio blog, posta elettronica, siti personali, social network, messaggeria istantanea“.

Il bullismo, tuttavia, nasce da un disagio pregresso e persistente, per questo ritengo opportuno porre l’attenzione sulla risoluzione sana dei conflitti e non sull’aggressività quale metodo per sconfiggerlo. Bisogna, quindi, cercare di capire come prendersi cura di questo disagio, senza pensare ad annientarlo. Credo, poi, che famiglia, scuola, istituzioni e comunità in generale siano orientate verso un obiettivo comune: quello di un’educazione che si pone come principale scopo far assumere un ruolo importante alla comunicazione tra il nostro mondo interiore e quello che ci circonda. Il bullismo e il cyberbullismo sono conflitti che intervengono sia a livello personale che intrapsichico. Per fornire una risposta a questi fenomeni è importante, quindi, partire dall’analisi del concetto di conflitto”.

Bullismo, il conflitto

Ognuno di noi è in relazione con qualcun altro, sempre. In primis con sé stessi e, sicuramente, già questo genera molti conflitti, ma è l’esistenza stessa che è relazione, dinamicità, metamorfosi e – per questo – il conflitto è sempre legato ad una determinata relazione con una parte di sé. Con la cultura, i valori, la politica. Il conflitto è parte integrante di noi. Nel momento stesso in cui ci troviamo davanti ad un conflitto, a livello sociale, non è possibile pensare di poterlo risolvere senza considerarne, prima, la dimensione interiore“. 

Il conflitto, quindi, va gestito in maniera sana e costruttiva, perché  “il disagio va accolto e non deve essere letto sviluppando la sensazione di ‘esseri inferiori o deboli’. Il disagio va interpretato, invece, come un ulteriore elemento che abbiamo a disposizione per poter conoscere una nostra parte intrapsichica: cioè un personaggio del nostro palcoscenico psichico. Questo ci porta a relazionarci con la sofferenza, che oggi più che mai si tende a soffocare e a non ascoltare. La più grande difficoltà che si incontra è la paura di stare male, ma è bene comprendere che si può gestire positivamente un disagio nel momento stesso in cui si decide di prendersi cura di esso”. 

“Paura e mancanza di empatia, le due emozioni protagoniste del doppio fenomeno bullismo e cyberbullsimo, non devono ‘sparire’, ma devono essere accolte in uno spazio interiore. Bullo e vittima tendono ad essere quasi due facce della stessa medaglia: il bullo sicuramente non è riuscito a guardare in faccia il suo disagio, ad affrontare le sue sofferenze e le sue fragilità, e ciò non va assolutamente confuso con una giustificazione. Il bullo, ancora, non è riuscito a prendersi cura di sé e non ha avuto e/o incontrato qualcuno che si prendesse cura di lui. Poi c’è la vittima, che si trova nella stessa condizione psichica del bullo: solo che ognuno esprime questo stato psicologico in modi e ruoli differenti. Entrambi hanno una ferita intrapsichica, una disarmonia: chi la esprime con la rabbia, chi con la paura di non raccontare ciò che subisce a scuola o in altro luogo, ma entrambi sono attori dello stesso palcoscenico psichico. Hanno in comune una ribellione che vuole essere riconosciuta con una propria identità”.

Le conclusioni

“C’è da dire che un limite della società di oggi consiste nel reprimere le emozioni. Quando un bambino si arrabbia o si imbarazza, o ancora quando si allarma, l’adulto – anziché dargli modo di esprimere ciò che prova – tende o a sdrammatizzare le sue paure o ad arrabbiarsi più del piccolo, non consentendogli così la naturale espressione del suo vissuto emozionale. Con un simile comportamento si rischiano due reazioni: introversione o estroversione, ma senza una via di mezzo. Senza il giusto equilibrio tra le due parti. I bambini, così come gli adolescenti e gli adulti, hanno bisogno di trovare valorizzazione e apprezzamento delle loro qualità, attraverso la manifestazione delle proprie emozioni. È fondamentale, quindi, educare alle emozioni“.

Come farlo?

“Un modo validissimo per educare alle emozioni – ad esempio nelle scuole – è lo strumento del circle time: un metodo di lavoro che facilita e aumenta la vicinanza emotiva. Metodo, appunto, efficace per stimolare bambini e ragazzi ad acquisire conoscenza e consapevolezza delle proprie e altrui emozioni. Anche far uso di circle time dalla scuola materna allena i bambini a mettersi in gioco, a sapersi relazionare con gli altri, dando spazio alle proprie emozioni anche nel confronto con un gruppo. Il gruppo, in questo caso, assume un ruolo e valore diverso, cioè di contenitore emozionale utile ed efficace per la conoscenza del sé e degli altri. Si diventa bulli quando l’aggressività si configura come unica modalità di relazione e, parallelamente, si è vittima quando la paura prende il sopravvento sulla propria persona“. 

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Scuola, inclusione e Bes, i Bisogni Educativi Speciali: nessuno deve essere escluso

La scuola è ufficialmente ripartita. Green pass, distanziamento, mascherine…ma il Covid19 non cancella le esigenze di tutti quegli studenti con Bisogni Educativi Speciali, i cosiddetti Bes. Nessuno deve essere lasciato indietro. Nessuno deve essere lasciato solo.

Ci sono studenti che, nel loro percorso scolastico, manifestano il bisogno di attenzioni speciali. Se ne argomenta spesso e, altrettanto spesso, se ne scrive. A volte, però, si fa confusione, anche a causa di una terminologia frequentemente utilizzata in modo poco accurato e preciso. Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta aquilana, Chiara Gioia. Bisogno, deficit, svantaggio, sono tutti termini che oggi sono ampiamente usati nella nostra società, a volte rendendoli interscambiabili erroneamente e tendenti a peculiarizzare alcune situazioni nell’ambito scolastico“.

Bes, scopriamo i Bisogni Educativi Speciali

Attingendo dal latino, la parola “ bisogno” vuol dire occuparsi, prendersi cura.

“Il bisogno indica una mancanza, una necessità. Ed è proprio la Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 a consentire l’uso dei ‘Bisogni Educativi Speciali’ (BES). Oggi, nelle nostre scuole vi è la presenza di alunni che presentano una richiesta di attenzione speciale per molte ragioni: quali possono essere, ad esempio, lo svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana, perché appartenenti a culture diverse.

“La sigla BES, allora, vuole rispondere ad antiche e giuste esigenze di trattamento personalizzato di tutti gli alunni, i quali, nel loro percorso di crescita e formazione – con continuità o per determinati periodi – possono manifestare Bisogni Educativi Speciali o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici e sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e individualizzata risposta.

L’utilizzo dell’acronimo BES indica una vasta area di alunni per i quali non è possibile fare diagnosi di Disturbo specifico di apprendimento, bensì è il disagio stesso che tende a compromettere lo stesso.

Il loro bisogno di sviluppare competenze di autonomia “è complicato dal fatto che possono sussistere deficit motori, cognitivi, oppure difficoltà familiari nel vivere positivamente l’autonomia e la propria crescita personale. Ciò li porta ad avere necessità di un supporto educativo personalizzato“.

I BES comprendono tre grandi sottocategorie, quali: disturbi evolutivi specifici, disabilità e svantaggio socio-economico, linguistico e culturale.

Come intervenire?

Ènecessario “tessere una rete”, in cui scuola e famiglia – agenzie formative per eccellenza – devono poter e saper dialogare, ascoltare, accogliere: per entrare in sinergia tra loro e poter cooperare. Nello specifico, vi è un team specialistico multi-professionaleche ha il ruolo di effettuare una valutazione, formulare diagnosi e definire un progetto complessivo di intervento che viene comunicato alle famiglie. Stabilendo cosi un contatto con il personale scolastico, al fine di integrare programmi educativi e interventi specifici”, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta.

Gli alunni con Bisogni educativi speciali hanno il diritto di esser integrati nel sistema pedagogico.

Bes, il diritto dell’inclusione

Oggi la scuola, vicina alle attuali esigenze, riconosce e muove verso il concetto di inclusione, “cioè il sentirsi parte di un gruppo-classe, che riconosce, rispetta e stima. Inoltre, la sigla BES chiama anche in causa un altro concetto: quello di “speciale normalità”. Vale a dire il bisogno che questi alunni hanno di essere e sentirsi come gli altri, ovvero che l’essere speciale venga inteso come ‘accoglimento di specifici bisogni’ e non come carattere di esclusione, bensi di esclusività. Come lo è d’altronde ogni singolo individuo, con la propria identità ed il proprio modo di essere”.

Una scuola si può definire inclusiva quando insegna ad ogni singolo alunno a riconoscere, accogliere e valorizzare l’alterità: come fonte inesauribile di ricchezza per la crescita di ognuno.

“Gli articoli 2, 3 e 34 della nostra Costituzione fanno ben comprendere come l’ambiente scolastico diventa inclusivo quando tende a rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione alla vita sociale degli alunni, quindi anche all’esperienza didattico-educativa delle persone”.

Bes, ci sono anche le famiglie

Attenzione va data anche alle famiglie.

“La disabilità o un rilevante ‘bisogno speciale’ di un componente della famiglia comporta sempre una “perturbazione”, non per forza persistente e patologica, all’interno del sistema familiare. La letteratura scientifica ci indica alcune variabili che incidono in senso negativo, quale ad esempio la gravità e la tipologia della patologia o anche la ‘desiderabilità sociale’. Assumere un adeguato atteggiamento che sia socialmente accettabile, in questo caso, costituisce una vera e propria reazione di difesa che varia molto da famiglia a famiglia. Coesione e flessibilità, rafforzamento di cambiamenti strutturali nel sistema familiare per affrontare il problema, sono elementi che incidono positivamente sulla capacità del nucleo familiare di gestire stress e accettare adeguati supporti, quale un sostegno psicologico e/o un percorso di psicoterapia“.

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Eutanasia, tra diritti e dolori: quali ragioni dietro a una scelta

Eutanasia, perché scegliere di morire è un diritto. “Liberi fino alla fine” è il messaggio che accompagna la raccolta firme per chiedere che l’Eutanasia venga legalizzata in Italia, attraverso un Referendum. Sì, perché la morte indotta in Italia è considerata un reato.

Il tema Eutanasia parte dall’idea di morte, per questo è complesso ed estremamente delicato. Parlarne e scriverne è quanto di più difficile si possa fare, ciò non ci esula comunque dal farlo. Perché si sta combattendo una battaglia che si trascina da tanto tempo e che, finora, non ha mai cambiato nulla nel nostro Paese.

Quando si parla di Eutanasia spesso si sottovaluta o si riflette poco su quale sia lo stato d’animo della persona la assiste un proprio caro gravemente malato. Da giorni, mesi o anni.

La morte, le sue molteplici interpretazioni, la concezione della vita che finisce, la ferita e il suo significato, anche psicologico e, infine, perché si sceglie l’Eutanasia: al termine di un percorso lungo, travagliato, pensato e, soprattutto, personale.

Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

L’Eutanasia e la ‘buona morte’

“Parlare di eutanasia ci mette di fronte ad un tema eticamente sensibile. Etimologicamente è una parola di tradizione dotta, arrivata a noi attraverso un’attività di recupero. È una parola greca che appartiene al patrimonio antico, il cui significato è mutato nel tempo. Letteralmente significa ‘buona morte’, concetto apparentemente semplice, ma che – in realtà – è variamente interpretabile. Cosa debba intendersi per buona morte, infatti, dipende dai tempi, dai luoghi e dalle culture. Storicamente, poteva essere intesa una buona morte la morte eroica in battaglia o quella nelle guerre ‘sante’. Per qualcuno, purtroppo, una buona morte può essere addirittura il suicidio, ma sappiamo che così non è”, ci spiega Chiara Gioia. 

 

“Una ‘buona morte’ – continua – può essere intesa sotto vari punti di vista, in particolare: fisico, etico e spirituale. In senso fisico, ad esempio, la buona morte può riferirsi ad una circostanza naturate o indotta, volontaria o involontaria. In senso etico può indicare la morte cui si va incontro come ‘cosa’ giusta, con accettazione, quasi come fosse il perfetto completamento della vita. In senso spirituale, infine, la morte è un trapasso necessario, non fine ma cambiamento”.

E psicologicamente? 

“In questo caso, nell’ambito psicologico, la morte assume un significato altro rispetto a quelli già citati. Come simbolo la morte è ciò che distrugge l’esistenza. Quindi fa intendere ciò che viene meno, all’improvviso, che svanisce per sempre. È un concetto, inoltre, che introduce a mondi sconosciuti e dalle sfumature ambivalenti: si accosta a riti di passaggio. La morte è un mistero che viene inevitabilmente vissuto con angoscia, associato ad immagini di paura, senso di vuoto e solitudine, disperazione. Soprattutto, la morte porta ad interfacciassi con la dimensione della malattia e questo ci ferisce”.

La malattia e la ‘ferita’: non solo fisica

La malattia è un disturbo. Un male che riguarda gli individui e la società. Se, da un lato, è letta come mancanza, squilibrio, alterazione, dall’altro lato è un indizio, terrificante, della nostra mortalità. Ci aiuta a prendere coscienza della stessa, di una morte inevitabile. Del resto, la malattia è una ‘crepa’ che si crea nel nostro corpo, ma ancor prima nella psiche. Sì, perché la lacerazione causata dalla presa di coscienza, appunto, ha un fortissimo impatto emotivo. Le ferite, cioè, ci fanno sentire vulnerabili e spesso ci condizionano“.

 

“Vero è – continua Chiara Gioia – che nel processo psichico le ferite guariscono, ma affinché ciò accada è necessario prendersi cura di esse, senza evitarle o ignorarle. Ogni ferita ha bisogno del suo processo: va riconosciuta, valutata, pulita e ricucita, per quanto possibile”.

Rispondere al perché si sceglie l’eutanasia non è affatto facile. Si può, però, provare a individuare i motivi che conducono all’eutanasia. Motivi che possono essere infiniti.

“Ci sono, alla base della scelta, possibili motivazioni personali, culturali, legate al dolore o, anche, alla perdita di speranza. Ciò che è importante, tuttavia, è prestare attenzione a chi vive queste situazioni drammatiche, di grande sofferenza, spesso silenziosa. Per tanto tempo queste persone stanno accanto a una persona cara malata. Viene spontaneo chiedersi se, allora, la morte diviene oggetto della domanda oppure il desiderio di non volerla pensare, considerare. Certo è che nel momento in cui muore una persona a noi cara, quella morte diventa il riflesso della nostra morte. Ecco quindi che dietro la sofferenza del malato c’è la sofferenza di chi lo cura”.

“Capire ed elaborare, da parte di chi siede al fianco della persona malata, giorno dopo giorno, la sofferenza del proprio caro, vuol dire impedire che la stessa sofferenza prenda strade che ci sfuggono di mano. Tantissime sono le famiglie in cui c’è una persona che si fa carico, più di altre, della cura di un caro malato. Trattasi del caregiver primario: un compito di responsabilità, che implica un investimento di energie spesso per anni e anni e che, per questo, necessita di attenzioni. Anche il caregiver deve essere assistito, protetto da rischi esterni ed educato a gestire la situazione delicata, anche a livello emotivo, senza esserne travolto dal punto di vista psicofisico e sociorelazionale. Il ‘fare’ del caregiver conclude la psicologa e psicoterapeuta Chiara Gioia è sicuramente mosso e portato avanti nel tempo con amore e dedizione, ciò, però, non lo solleva dall’essere comunque un compito gravoso. Con una ricaduta a livello psichico importante, soprattutto quando si maschera la propria preoccupazione di ciò che sarà un domani. Vanno considerati, poi, i livelli di stress, ansia e depressione a cui il Caregiver è soggetto. Per tutte queste ragioni è indispensabile accogliere ogni possibile strategia per evitare di farsi carico in solitudine di situazioni difficili, col rischio di esserne vittime e di provocare conseguenze ancor più pesanti di quelle già vissute”.

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