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Genitori, figli e social: bambini sul web fin dal primo test di gravidanza

Finiscono sui social ben prima di nascere. Dal test di gravidanza, alla scoperta del sesso del bebè. Tutto viene documentato e condiviso con post e storie: le prime ecografie, i primi calci alla pancia, il primissimo vagito. Significa anche questo, sempre più spesso, essere neonati e genitori oggi. Un fenomeno definito “sharenting”. Ma perché c’è tutto questo desiderio di raccontare la maternità, diffondendone su Instagram ogni attimo?

Forse perché viviamo nell’epoca dell’iperconnessione, con il telefono sempre in mano e l’indice che scorre continuamente sulle bacheche social. Un’epoca che ha portato, quasi naturalmente, a ridefinire lo stesso ruolo di genitore, attraverso un confronto continuo con genitori conosciuti e non, sulle piattaforme social.

Si tratta di genitori e figli nell’era digitale e di tutti quei condizionamenti che arrivano dal mondo virtuale.

Genitori e figli, l’influenza dei social

“Avere un figlio comporta l’assunzione delle responsabilità del ruolo genitoriale: una funzione che subisce, positivamente e negativamente, forti condizionamenti da tutto ciò che il mondo virtuale offre. Oggi viene chiamato ‘sharenting’: espressione di derivazione anglosassone, che indica la condivisione smodata e continuativa, da parte dei genitori, di foto e video dei propri figli“, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

Sui social passa, quindi, la puntuale narrazione di tutte le principali attività dei propri piccoli. “Storie, post, immagini quotidiane, che raccontano per filo e per segno ogni dettaglio delle giornate dei bambini, dopo aver narrato tutte le fasi principali della gravidanza. Facebook, Instagram, in misura minore anche Twitter… Il fenomeno dello Sharenting ormai è così diffuso da spingere diversi studiosi ad un’osservazione più attenta. Se fino a qualche anno fa si aspettava con ansia il famoso ‘debutto nella società’ – tanto atteso con il compimento del 18esimo anno d’età – oggi credo sia possibile parlare di ‘debutto sul web’: che non è indicato da un tempo, ma che avviene ancor prima della nascita di un bambino e che vede attribuirgli un’identità virtuale, senza che gli stessi bambini possano esserne consapevoli”.

L’identità dei bambini e i rischi della sovraesposizione social da parte dei genitori

“In ambito psicologico – continua Chiara Gioia – è noto quanto il processo dell’identità sia una fase delicata della vita, poiché porta a definire il modo di essere di ognuno. Anche per questo è un momento da attenzionare in misura particolare come fase di vita dei propri figli. È indice di passaggio e cambiamento, sotto ogni punto di vista, psico-fisico e socio relazionale. Oggi, però, con la capillarità del digitale è evidente come non sia mai esistita una generazione con un’infanzia tanto sovraesposta come quella attuale: di conseguenza il processo di formazione dell’identità va incontro a numerosi condizionamenti esterni e ‘appunto virtuali’. Se lo sharenting va letto come una modalità comunicativa di stati d’animo ed emozioni – da parte di chi pubblica materiale – ovviamente tale processo genera anche degli effetti consequenziali. Questa continua condivisione social è una pratica controversa, perché porta con sé molte conseguenze derivanti dalla sovraesposizione del minore. Innanzitutto ripercussioni sulla vita emotiva del bambino. Inoltre, si rende sempre più labile il concetto di privacy. Sono, poi, moltissimi i rischi nei quali si incorre sul web, legati appunto alla tutela del minore: poiché chiunque può utilizzare quelle foto a suo piacimento”.

“Bisognerebbe sempre tenere presente che quando i genitori condividono informazioni e immagini dei propri figli online, lo fanno senza il consenso dei figli stessi” . 

Uno studio pubblicato nel 2019, di Gaëlle Ouvrein “evidenzia come i genitori condizionino l’identità o il concetto di sé dei figli, attraverso la pubblicazione dei contenuti che li riguardano. Gran parte degli adolescenti di oggi, infatti, ambisce alla notorietà più di ogni altra cosa. Sempre più giovanissimi desiderano crearsi un’identità virtuale nota, avere migliaia di follower sui propri profili Instagram, ricevere feedback ad ogni singola pubblicazione e così via. Questo perché hanno impressa l’immagine psichica della capacità che passa, attraverso i media, di trasmettere la rappresentazione social che si sceglie per sé stessi. Nutrono la speranza di avere un’attenzione virtuale misurata sul numero di visualizzazioni, Mi piace o commenti. Il rischio, però, da un punto di vista psicologico, è quello di arrivare alla creazione di modelli estremamente diversi dal concetto (ancora attuale?) di impegnarsi nello studio o in campi specifici, per intraprendere ognuno la propria strada lavorativa e di vita”.

 

“Oggi i bambini pensano di poter raggiungere la fama grazie ai social e ad una pubblicazione costante della propria vita privata su Facebook e Instagram”.

“I giovanissimi sono psicologicamente attratti da queste prospettive che proiettano intorno all’uso dei social e credono che si possa raggiungere una sorta di business marketing, mediante la ‘giusta’ presenza su queste piattaforme. Ma che sostanza c’è dietro a tutta questa esigenza di notorietà? Si rischia concretamente che tutto il resto – dallo studio, ai rapporti interpersonali – passi in secondo piano: per dare priorità alle necessità e alle relazioni social”

“Da parte dei genitori – continua la psicologa e psicoterapeuta aquilana – si tratta di ‘usi’ dell’infanzia che, pur senza essere demonizzati e colpevolizzati, necessitano di essere maggiormente attenzionati. Riflessioni genitoriali che è necessario mettano in luce i rischi, sul fatto che a finire potenzialmente nelle mani sbagliate potrebbero essere non soltanto le immagini inserite sui social network, senza restrizioni – e quindi visibili a qualsiasi utente – ma anche quelle diffuse nei gruppi privati o ancora quelle pubblicate impostando con cura i parametri relativi alla privacy del proprio profilo. Una delle principali insidie, purtroppo anche molto frequenti, è legata al furto dell’identità online, al furto delle immagini, alla creazione di una reputazione digitale, alla geolocalizzazione che consente di reperire informazioni sugli ambienti frequentati dai minori. Altro pericolo è il ‘kidnapping’, termine utilizzato per indicare il comportamento di quei soggetti che, lavorando su foto di minori trovate sui social, li rappresentano come se fossero i propri figli. Altra fattispecie criminosa – facilitata dallo Sharenting e punita dal codice penale – è il ‘child-grooming’, termine che indica l’adescamento di soggetti minorenni da parte di persone di età maggiore”.

Genitori social e l’idea del marketing

“Lo sharenting porta a chiedersi dove si pone un limite tra il semplice desiderio di condividere un momento, di narrare sequenze di vita e dove, invece, si sconfina in un prodotto di marketing. Molti bimbi di oggi sono rappresentanti della cosiddetta ‘generation tagged’: la prima generazione a dover vivere, involontariamente, una continua documentazione della propria esistenza sui social media. Vari studi americani parlano di un’alta percentuale di genitori che fanno uso dei social media per confrontarsi sui temi della genitorialità e per condividere, con amici e parenti, contenuti e ricordi relativi ai propri bambini. In quest’ottica il fenomeno Sharenting rappresenterebbe anche un modo per ridurre le proprie preoccupazioni sul ruolo di genitori. Gli studi più recenti hanno indagato, inoltre, sul ruolo della madre, individuando una maggiore vulnerabilità cui sarebbero esposte le neo-mamme.

Nell’analisi sui cambiamenti che, in modo particolare negli ultimi anni, hanno interessato la ‘spettacolarizzazione’ condivisa della maternità e i primi anni di vita dei bambini, si deve ovviamente considerare il mutato contesto storico rispetto al passato.

Un contesto in cui la stessa società è profondamente cambiata. “Si riscontra – conclude Chiara Gioia – una cultura del narcisismo, recentemente tornata in auge. Ma di narcisismo esiste una forma sana, cioè l’amore per sé stessi, e una forma che tende a sconfinare nell’eccesso, portando il soggetto a sentire un costante bisogno di affermazione e di apprezzamento. Ciò potrebbe condurlo a concentrarsi così tanto su sé stesso, rischiando di perdere di vista l’altro e percependolo soltanto in funzione dell’ammirazione che riesce a trasmettergli. E proprio alla base di questa nuova cultura del narcisismo ci sarebbe la celebrazione del proprio Ego, attraverso l’uso delle tecnologie digitali.

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Confident french woman posing with kissing face expression. Studio shot of lovely female model in red beret expressing love while making selfie.

Selfie, filtri e labbra ritoccate tra le giovanissime: così nascondiamo le insicurezze

Foto ritoccate, selfie, filtri Instagram che cambiano i connotati ed ora la la Rich Girl Face, cioè la medicina estetica per assomigliare a ragazze famose. C’è una smodata fame di bellezza nella nostra società, ma si fa fatica a riconoscerla. Una bellezza standard: suggerita non più dalle dee dipinte sui quadri, ma dai selfie che si susseguono sui social. E pazienza se, un giorno, sembreremo tutti uguali.

Dove non arrivano i filtri arrivano i trattamenti. Emerge il fenomeno della “Rich girl face”: il 42esimo Congresso nazionale della Società di Medicina Estetica, tenutosi a Roma, ha evidenziato come sempre più adolescenti chiedano al medico estetico di trasformare la propria immagine per assomigliare a ragazze ricche e famose. Come? Grazie a labbra gonfie e zigomi pronunciati. Trattamenti, un tempo nascosti, oggi ostentati tramite social.

Un fenomeno, quello delle Rich girl Face – terminologia coniata dal chirurgo plastico tedesco Dirk Kremer per Glamour UK – che interessa soprattutto le ragazze under 30.

“Oggi si rincorre l’ideale di perfezione esteriore, ci si preoccupa della forma molto più dei contenuti. Si stenta invece a inseguire il progresso, che non è certamente mera forma“. A parlare alla redazione del Capoluogo è la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia.

“La fame di bellezza è sempre esistita, ma soprattutto oggi viene confusa per semplice edonismo, vanità. Il concetto del bello rimanda all’armonia e riguarda una necessità dell’essere umano. Sentirsi bello è indispensabile al suo equilibrio psicologico e sociale. E il desiderio di bellezza che si registra al giorno d’oggi è una rincorsa a un’idea di perfezione veicolata sempre più dai social network. In questo modo ci si allontana dal concetto di progresso e si torna alla rigidità di canoni imposti, di cui si rischia di diventare schiavi. Logicamente, infatti, inseguire canoni prestabiliti da una società in cui l’immagine la fa da padrona conduce all’omologazion

Oggi, quindi, la società è il riflesso di tutto questo: ma ci sono delle conseguenze. “Questa fame di bellezza e questa rincorsa all’esteriorità e a un’apparenza che prevale sull’essenza, cosa vanno ad offuscare? Eventuali disagi interiori, che vengono così soffocati nel tentativo di sentirsi meglio inseguendo idee di perfezione. La  vera essenza del reale concetto di bellezza, però, non consiste nel raggiungere una perfezione che non esiste, ma nel raggiungere il progresso: inteso come crescita individuale e personale, grazie ad un vero equilibrio intrapsichico“, continua Chiara Gioia.

 

“Il concetto di bellezza, va precisato, non rimanda soltanto all’ideale descritto dai canoni estetici, ma – anche e soprattutto – al principio di bellezza interiore. Come facciamo un qualcosa, come approcciamo al lavoro e tutte le caratteristiche che più rispecchiano il nostro modo di essere. Va bene la cura del corpo, ma essa non può essere priva dell’attenzione all’anima mundi. Possono esserci i tutti i ritocchi del mondo, ma la forma esteriore se manca qualità al suo interno diventa solo una sorta di schermata superficiale: bella sì, ma fine a sé stessa”.

Cosa si intende per Anima Mundi?

“Il concetto di bello è riferito a qualcosa che sia ben proporzionato al nostro equilibrio intrapsichico.
Nella lingua italiana ‘bello’, a livello culturale, indica non solo ciò che risulta piacevole ai sensi, ma anche qualità più generali, ad esempio ciò che il bello suscita nell’animo umano. La bellezza riguarda il nostro modo di vivere e di stare al mondo. Qui si inserisce il concetto del ‘Fare Anima’, quindi dell’anima mundi: facendo chiaro riferimento alla realizzazione dell’umanità di ciascuno. Tutti siamo contagiati e/o condizionati dal senso di bellezza, che diventa tutt’uno con l’anima stessa della persona. Il ‘fare anima’ implica inevitabilmente i luoghi dell’anima e le rispettive cure. Tali luoghi vanno frequentati, visitati, compresi nel loro significato e resi propri. Ed è qui che l’anima utilizza un linguaggio per esprimere aspetti di sé, di riflessione sul senso della vita e del mondo: esistono luoghi privati e collettivi anche a livello intrapsichico, così si completa il concetto autentico di bellezza, che è anche e soprattutto quella sostanza che riempie la forma“.

 

La bellezza, il potere delle foto (e dei selfie) e i pericoli dietro i filtri

Sentirci belli ci fa sentire desiderati e desiderabili. Quindi, il nostro senso del bello ci conduce a renderci attivi socialmente. Il fenomeno dei selfie è entrato ormai appieno nel modo di vivere della maggior parte delle persone, seguendo l’evoluzione della foto stessa, che ha avuto un’autentica metamorfosi. La foto è un modo per conoscere: una modalità che permette, cioè, di fissare attimi di vita – individuale e collettiva – emozioni, sensazioni e ricordi, a livello manifesto. Del resto, l’uomo è fatto di immagini e senza di esse tende a smarrirsi, a livello identitario e di coscienza”.

I selfie oggigiorno, però, sono accompagnati sempre più spesso da un uso dei filtri addirittura disfunzionale, “molto probabilmente legato a forti insicurezze che, nei casi più estremi, portano alla non accettazione di sé o addirittura a disturbi alimentari o a stress psicologico. Uno stress legato al non raggiungimento di quella finta immagine che in realtà si desidera tanto avere“.

“Alcuni studi scientifici evidenziano un incremento di personalità narcisista. Infatti, il processo dei selfie ha il potere di unire la forza dell’autoritratto con una comunicazione virtuale sicuramente amplificata, che è in grado di offrire, soprattutto ai più giovani, uno strumento molto efficace per poter oggettivare e raccontare in modo non sempre e/o del tutto vero ciò che risiede nei nostri luoghi psichici. I selfie, soprattutto se modificati dai filtri, sono – così come le foto – degli strumenti espressivi che hanno il potere di modificare ciò che si intende far arrivare agli altri e non mostrare la genuinità, l’essenza di ciò che realmente si è. Allo stesso tempo i selfie degli altri ci consentono di comprendere quali sono le modalità che vengono maggiormente accettate dal collettivo, ma con il rischio di far sottacere l’anima mundi”.

 

I filtri per nascondere le vulnerabilità

“Se la logica dell’avere prevale oggi su quella dell’essere, altresì la logica dell’apparire prevale sulla logica dell’essenza di ognuno. È un meccanismo fin troppo comune quello di modificare la propria vita e la propria immagine sui social: dove la vulnerabilità sembra essere vietata e stigmatizzata“, continua la psicologa aquilana Chiara Gioia.

 

“Sono stati effettuati già vari studi scientifici che evidenziano possibili derive sintomatologiche nelle persone che tendono ad agire con l’uso di filtri tecnologici sulla propria immagine corporea: quasi a voler soffocare il ‘fare’ anima. La sintomatologia potrebbe includere depressione, ansia, disturbi del comportamento alimentare o disturbi legato alla dismorfofobia, cioè il non accettare il proprio corpo, vederlo non equilibrato e trovarlo sproporzionato nella sua totalità”. 

 

Anche la prova costume diventa uno scoglio da superare, a prova di social e post Instagram “inseguendo personaggi noti che dipingiamo come icone e modelli di perfezione. Questo poiché non accettiamo gli eccessi, le imperfezioni, la dinamicità e il cambiamento a cui il corpo dell’uomo è soggetto, anche a seguito di dinamiche e processi naturali, come il tempo che passa.

 

“Se una donna di spettacolo torna sullo schermo dopo una gravidanza, con qualche chilo in più, finirà inevitabilmente per essere oggetto di critiche sul suo aspetto fisico: come se il suo canone di bellezza non corrispondesse più ai canoni televisivi. Non si accettano le modifiche del proprio corpo e, spesso, di quello altrui. Chi dice o stabilisce, però, che per apparire in televisione bisogna avere le misure di una modella? Tutto ciò è indice di una bellezza intrapsichica che non è stata mai nutrita: volersi modificare totalmente vuol dire non accettarsi, è un segnale dell’assenza di equilibrio interiore. La stessa bellezza dei luoghi fisici, quindi un esagerato impegno nella cura della nostra casa, del nostro giardino può essere il riflesso di ciò che abbiamo dentro: chi non accetta il disordine fisico, probabilmente si trova a combattere con un suo caos intrapsichico. Bellezza è armonia ed equilibrio, fuori e dentro“, conclude Chiara Gioia.

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Haters, l’odio anonimo dei leoni da tastiera: cosa c’è dietro

“Sei di plastica”, “Sei grassa come una balena!”, “Ma come ti conci? Sei una mamma!”, “Sei solo f*****, contro natura!”. “Parassiti, rimandateli a casa sui loro barconi”. Dall’invidia, al razzismo, dall’omofobia al semplice odio social: il peggio dei media, spesso, si può racchiudere nella violenza linguistica degli Haters. Persone che spesso, però, non si accorgono che ‘gli altri sono anche loro’.

Chi sono gli Haters? Odiatori seriali che sul web hanno trovato la loro piazza dello scherno preferita e che si nascondono dietro un profilo social, frequentemente falso.

Da dove nasce tanto odio? E perché, sul web, spuntano Haters e Leoni da tastiera come funghi? Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta aquilana Chiara Gioia. 

“Vengono definiti Leoni da tastiera coloro che provano piacere nel deridere e insultare gli altri, senza poter essere identificati. Quasi come fosse un mestiere che abbia finalità ultima quella di postare e commentare sui social – e in generale sul web – argomenti ‘scomodi’ per il riconoscimento collettivo, attivando ciò che nel gergo virtuale viene definita shitstorm“. 

Una tempesta di odio, in cui ogni goccia è un mix di denigrazioni, insulti, offese. Espressioni di un odio che riesce ad esprimersi e consumarsi nel mondo virtuale: una dimensione nel quale, spesso, si ha la convinzione che tutto sia concesso“.

L’attività degli haters – spiega Chiara Gioia – è un chiaro riferimento dell’impatto che un mezzo, quale il web, ha sulla mente umana. L’avvento di internet ha comportato un passaggio da una cognizione sociale ad una cognizione virtuale. Sono venute meno, cioè, la bellezza e l’importanza di viversi rapporti diretti: cogliendone le vere emozioni, le sensazioni, i sentimenti. Ciò ha fatto sì che si alimentassero atteggiamenti disfunzionali, come quello tipico degli haters”.

“Il comportamento degli haters si nutre del fato che il male fa più notizia del bene, quindi richiama maggiormente l’attenzione. Mentre il bene è discreto, nascosto. Come recita un aforisma attributo a Lao Tzu: «Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce»”.

E a fare rumore, nelle ultime settimane sono state due polemiche che hanno visto gli Haters di nuovo al centro dell’attenzione. La prima, ha riguardato il tema del Catcalling, chiamato in causa dalla giovane Aurora Ramazzotti, ora tra Le Iene dell’omonimo Programma Mediaset. Le è bastato lamentare i fischi e le urla lanciatele per strada, ogni giorno, mentre va al parco a correre per essere sommersa dagli insulti social.

Qualche settimana fa, invece, un’altra polemica ha coivnolto la giornalista del Corriere della Sera Elvira Serra, pesantemente criticata e insultata dopo aver scritto un articolo su Luana D’Orazio, la mamma 22enne inghiottita e uccisa da un orditoio, nella fabbrica in cui lavorava a Pistoia.

Ma perché tanta facilità d’odio e tanta violenza nelle parole?

Haters, “l’arma” dell’anonimato è l’incentivo a non avere freni

I social hanno visto, nel tempo, il proliferare di profili falsi: creati per avere un’identità virtuale non riconducibile alla propria. E proprio queste numerose “identità non definite unite alla possibilità dell’anonimato diventano potenti strumenti per poter umiliare altre persone, ovviamente online. Di conseguenza, la de-individuazione si trasforma nell’arma di cui molti si avvalgono per far emergere l’odio e l’ira che albergano dentro ogni psiche, ma che spesso non sono riconosciuti né, quindi, canalizzati”. 

L’odio per ciò che siamo, ma che non accettiamo

L’odio social si manifesta attraverso l‘hate speech, il ‘linguaggio’ degli haters. Secondo l’Enciclopedia Treccani si tratta “nell’ambito dei nuovi media, di quell’espressione di odio e incitamento all’odio di tipo razzista, tramite discorsi, slogan e insulti violenti, rivolti contro individui, specialmente se noti, o intere fasce di popolazione (stranieri e immigrati, donne, neri, omosessuali, credenti di altre religioni)”.

Ma cosa odiamo? “La psicologia dello sviluppo mette in evidenza come l’odio sia una chiara espressione di una carenza riguardante l’integrità della psiche: ad esempio la svalutazione dell’altro, la proiezione con cui si nega la presenza in sé di sentimenti e aspetti inaccettabili, attribuendoli all’altro. Un ‘Altro’ che viene per questo rifiutato. In tal modo, distruggendo l’altro, anche quella parte che ci portiamo dentro – ma che occultiamo – viene eliminata”, evidenzia la psicologa e psicoterapeuta Chiara Gioia.

“Quella degli haters sembrerebbe essere un’emotività incontrollata”

“L’essere umano è complesso ed è complesso il nostro teatro psichico interno. Odio e amore non si escludono: possono coesistere. Ma bisognerebbe lavorare psicologicamente sui propri lati oscuri, che si rifiutano o si è convinti di non esser parte integrante di noi stessi. I cosiddetti lati Ombra: vale a dire la sede in cui albergano le passioni negative, forti o deboli che siano, ma ineliminabili. Ne deriva la difficoltà di gestione di queste passioni distruttive, soprattutto se non sono riconosciute. Perché – è Jung a ricordarcelo – quando esse provengono dalle profondità dell’inconscio e contengono tracce malate, si manifestano in modo deformato”.

“La difficoltà maggiore sta nel saper canalizzare tali sentimenti disturbati. Viceversa lo sviluppo tecnologico e oggi Internet ci consentono di esprimere con facilità e senza freni le pulsioni che albergano nella nostra psiche. L’ombra, tuttavia, non è solo un vaso di Pandora che contiene tutti quei mali negati e rimossi: nel suo fondo si possono trovare anche parti della nostra personalità utili, creative, genuine, che per varie ragioni abbiamo tagliato via da noi stessi, a volte a caro prezzo per la nostra individuazione personale”.

Odio e Ira, come imparare a distinguerli

L’odio è un “sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui” (Treccani). Può essere rivolto a gruppi, famiglie e clan e può avere alla base motivazioni di varia natura: culturale, razziale, religiosa, storica.

“La forza rilevante di questo sentimento è dovuta al fatto che non si ha a che fare con una emozione primaria, ma piuttosto con una miscela variegata di sentimenti e atteggiamenti, frutto della personalità, della storia e delle relazioni dell’individuo. Le molteplici manifestazioni dell’odio hanno alla base delle peculiarità ben specifiche, come ad esempio la passione e la potenza legate alla decisione, ovvero il poter decidere, in questo caso, chi, come e perché attaccare l’Altro: diverso e per tale motivo inconcepibile da accettare“.

In cosa l’odio è diverso dall’ira? 

“L’odio è freddo, programmato nella sua attuazione: come avviene ad esempio nella modalità persecutoria degli stalker, oppure nella pianificazione di atti terroristici. Lo si può, comunque, esprimere in maniera emotiva se unito all’ira, con cui ha analogie e differenze”, spiega ancora la psicologa e psicoterapeuta aquilana.

L’ira, come l’odio, nasce da una tristezza presente nell’animo, per un danno subìto o per la perdita di un bene ritenuto importante. Da qui emerge la volontà di intervenire sulla situazione per cambiarla a proprio favore. Il sentimento dell’ira è mosso da una richiesta di giustizia. Ira che si differenzia dall’odio perché è concreta e individuale: legata a una persona o a un avvenimento preciso. L’odio invece è generalizzato, rivolto a un’intera classe sociale o categoria di persone. Inoltre, l’ira esprime un dolore occasionale, che con il tempo tende a scomparire, cosa che invece non accade nell’odio, che è permanente e pecca nella capacità di valutazione e ponderazione propria della ragione. Chi ne è succube tende ad essere unilaterale, incapace di differenziare”.

Cosa vuol dire essere incapaci di differenziare? “Non riuscire a distinguere le nostre parti intrapsichiche. Perché le rappresentazioni psichiche legate all’odio tendono ad essere oppositive, dividendo la narrazione in valutazioni nette: in termini di buono/cattivo, giusto/sbagliato. Per provare a superare queste problematiche, servirebbe un percorso in terapia”.

L’ira, al contrario – continua Chiara Gioia – ‘si rivolge sempre al singolare concreto’. Se l’ira è impetuosa, del resto, è pur vero che si arresta una volta che ha ottenuto giustizia, mentre l’odio non conosce la pietà e, anche una volta annientato il suo oggetto, non sembra affatto trovare pace. Esso piuttosto cresce con il tempo, fino a diventare l’unica modalità di valutazione e azione, e termina soltanto con la distruzione di colui che lo coltiva. L’ira può comunque essere alla base dell’odio, nel momento in cui degenera e perde la misura e il controllo. Ad esempio la stessa bellezza può essere considerata offensiva per chi se ne ritiene privo“. 

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